"Io sto con la sposa", ossia la libertà di circolazione per tutti
IO STO CON LA SPOSA
frammenti di una storia di extra ordinaria umanità
Torino (Piemonte – Italy) – sabato 11 ottobre 2014 – Cinema Fratelli Marx
“Se devi vivere,
vivi libero
altrimenti muori
come gli alberi,
immobile.”
” Quando la guerra
ti entra in casa
dopo migliaia di morti
nei tuoi mari
e migliaia di arresti
nelle tue città
non resta che
disobbedire
cinque palestinesi e siriani
in fuga dalla guerra
e i loro speciali
contrabbandieri
in una emozionante
avventura on the road
alla ricerca della
P A C E
Una storia fantastica
eppure dannatamente vera.
Il film è dedicato ai nostri figli perché nella vita arriva il momento in cui bisogna decidere da che parte stare.”
“Io sto con la sposa” è un film documentario.
Atto politico.
Culturale.
Umano.
Deontologico.
Necessario.
Un documento di impegno civile.
Atto totale di resistenza civile nonviolenta.
Azione nonviolenta di ribellione a leggi ingiuste.
Irresponsabili, inefficaci, inefficienti, inutili e punitive quelle italiane.
Complementari alle leggi europee.
“Diciassette paesi europei si dichiarano accoglienti nei confronti dei profughi ma poi dove sono?” conclude, sconcertato, Ahmed, uno dei cinque profughi partecipanti al corteo nuziale, del film-verità, composto da 23 donne e uomini Italiani, Siriani e Palestinesi.
La controprova è il problema irrisolto delle migrazioni che non più soltanto un tratto distintivo di alcuni popoli, ma è ormai divenuto un universale culturale del nostro presente planetario.
E come tale va assunto e affrontato insieme al con-seguente dovere-diritto universale di libera circolazione per tutti.
“Io sto con la sposa” è la storia vera di un viaggio, durato quattro giorni (dal 14 al 18 novembre 2013) e tremila chilometri percorsi, a piedi, in auto, in treno da Milano fino a Malmo (Svezia), compiuto da un fittizio corteo nuziale composto da 23 persone tra cui il giovane Manar.
E’ un viaggio interiore, e viaggio reale insieme, compiuto da un gruppo di persone che ha deciso di fare qualcosa per la libertà degli altri e, in definitiva, contemporaneamente, per la propria.
“Se devi vivere, vivi libero altrimenti muori …” sono le parole di un amico di Abdallah – lo sposo – quasi un fratello come dichiara nel film.
Abdallah è sopravvissuto al naufragio dell'11 ottobre 2013 dove morirono 26 persone e 250 sono stati i dispersi. “Siamo rimasti un’ora e mezza a largo, tutto intorno c’erano cadaveri che galleggiavano, ma né Malta né l’Italia si decidevano ad intervenire – racconta. A un certo punto hanno iniziato a buttare i cadaveri a bordo, uno sull’altro, me li sentivo addosso, mentre ero disteso a terra. Ma non riuscivo a muovermi, così ho mosso una mano per far capire che ero vivo. Ero riuscito a sopravvivere a un naufragio e stavo per soffocare sotto i cadaveri.”
Un’azione collettiva per il riconoscimento della libertà e della dignità di chi è costretto a spostarsi – il profugo – e che aspira al purtroppo solo minimalista, dovuto, riconoscimento dello status di rifugiato per poter ricominciare una nuova vita.
Per togliere i migranti dalle mani avide dei contrabbandieri – una delle parti del problema – alcuni dei quali sono addirittura capaci di portare i migranti sulle Alpi, farsi pagare, e poi abbandonarli dicendo loro che si trovano in Svezia.
Con passeurs amici, civili inermi ma imbattibili proprio per la loro azione disobbediente e co-organizzata, si compie invece quell’atto – straordinario nel film ma ordinario nella quotidianità di una vita di senso – del farsi carico delle storie degli altri, delle vite dei profughi segnate da ferite non rimarginabili che nel film si sono autorappresentate nell’esercizio di un mutuo aiuto che, in definìtiva, altro non è che mero dovere civile.
Fors’anche per quel vecchio Leitmotiv per il quale o si è tutti liberi o nessuno è libero e per tutte le verità contenute nelle toccanti parole di Tasneem (la sposa) quando dice che c’è un sole per tutti, che il cielo è di tutti e che la vita è per tutti rendendo omaggio al diritto collettivo universale alla vita e alla mobilità che è di tutti e per tutti: nessuno escluso.
In questo senso il film sdogana la libertà di circolazione per tutti senza se e senza ma.
Perfettamente riuscito, perché restituito in modo magistrale dalle immagini, è l’incanto della rappresentazione di questi speciali “compagni” nell’accezione etimologica latina del termine di compagno ovvero di colui “che mangia lo stesso pane”.
Compagni di viaggio, e non solo, di questa indimenticabile storia filmica e di vita.
Compagni per sempre.
La purezza e la fascinazione di una scelta che richiama alla mente il Talmud – nel concetto “chi salva una vita, salva il mondo intero” – e la seduzione per la bellezza di un mondo “altro” da quello dei contrabbandieri, delle leggi e degli uomini non giusti, sono restituiti dalle emozioni palpabili, forti, vere che hanno cambiato le esistenze di tutti e che ritmano il film raggiungendo spesso climax di rara umanità e “stupendità.”
La “nostalghìa” straziante ma dignitosa dei profughi a tratti si rarefà contaminandosi con la forza e la determinazione della necessità del dover-voler arrivare alla fine del viaggio al più presto possibile.
Canzoni, danze, poesie, preghiere sono presenti in quella dinamica nonviolenta così necessaria che è la festa quando, a notte inoltrata, viene a riempire la vita e la giornata fatta di dodici ore di viaggio. A rinfrancare dalla stanchezza, dalla tensione, dalla paura tutti i protagonisti che celebrano così quel rito felice, sublime e collettivo talmente tanto normale da essere stato da taluni dimenticato e osteggiato, dell’accoglienza e della solidarietà condivisa fra pari.
Perché la pace, così tanto agognata e ricercata, significata nel trailer del film, si canta, si danza, si prega e si recita. Con poesia. Collettivamente.
In ogni sosta notturna il gruppo viene accolto da amici ospitali, che insieme ricordano, festeggiano e supportano la voglia di resistere e di riscatto del gruppo, ma soprattutto dei cinque profughi, a testimonianza che un altro mondo e un’altra Europa solidali esistono.
Le riprese sono state effettuate in presa diretta, senza dialoghi scritti né personaggi. Ognuno è stato interprete di se stesso. “Abbiamo ragionato per scene” dice Gabriele.
Ad agosto 2014, apprendiamo alla fine del film, Abdallah, Mona e Ahmed hanno ottenuto lo status di rifugiati mentre, dopo quattro mesi dall’arrivo a Malmo, Alaa e Manar sono stati “rispediti” in Italia.
Li abbiamo incontrati ieri sera a Torino al cinema Fratelli Marx nel corso dell’incontro col regista Gabriele Del Grande.
L’emozione e la fatica, per una corresponsabilità così pesante, mi hanno impedito di parlare con Manar e Alaa come avrei voluto. Tenterò di porre rimedio a questo.
Ma se l’altro è un altro me stesso, e se così si sceglie di vivere ogni giorno, allora non ha più bisogno di spiegazioni quel “NOI” di cui parla Gabriele e che è alla base della scelta del gruppo e dell’azione politica culturale nonviolenta di disobbedienza civile e di accompagnamento verso la libertà.
“Se è nostro il mare, nostri sono i morti e nostri sono i vivi”, come ricorda Gabriele, costruiamo mondi, e modi, possibili in cui non esistano più profughi ma donne e uomini, seppur migranti, nostre compagne e compagni di vita, vive e vivi, libere e liberi.
Ovunque.
Altrimenti possiamo NOI morire come gli alberi.
Immobili.”
Imperdibile.
Silvia Berruto, Giornalista contro il Razzismo