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Il diritto di emigrazione

Un concetto pressoché scomparso dalla discussione pubblica e che occorre invece rilanciare di fronte ai ricorrenti casi di cronaca: i naufragi nel mar Mediterraneo, i maltrattamenti nei dentri di accoglienza e di detenzione, la tentazione di allargare e rafforzare l'area dell'esclusione
19 dicembre 2013 - Lorenzo Guadagnucci
Pubblichiamo questo articolo di Lorenzo Guadagnucci uscito sul numero di novembre di Altreconomia. E' una riflessione scaturita dalla tragedia nel mar Mediterraneo del 3 ottobre 2013 e propone di concentrare l'attenzione su un concetto pressoché scomparso dalla discussione pubblica: il diritto a muoversi, a lasciare il proprio paese, a cercare altrove migliori condizioni di esistenza.
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L’hanno definita ecatombe: il 3 ottobre scorso più di trecento persone sono morte in mare, davanti a Lampedusa, nell’incendio e nel successivo naufragio dell’imbarcazione che le stava conducendo sull’isola. Erano cittadini siriani, eritrei, somali di tutte le età e condizioni sociali. Erano richiedenti asilo. La sindaca dell’isola, Giusi Nicolini, ha detto le sue prime parole di commento con un groppo alla gola: “Dobbiamo andare a prenderli là, prima che partano. Perché non lo facciamo?” Dai palazzi romani i primi commenti, a parte il cordoglio, avevano ben altro tenore: parlavano di “Europa assente” (il ministro dell’Interno), della necessità di “fermare il traffico criminale di esseri umani” (il presidente della Repubblica), di “proclamazione del lutto nazionale” (il presidente del Consiglio).

Mai come in quei momenti tragici è apparsa evidente la profonda differenza di visione fra chi – come Giusi Nicolini – si immedesima nei migranti, prova empatia, condivide in qualche modo il loro dramma e cerca di trovare soluzioni nella direzione del riconoscimento di diritti, e chi – i nostri uomini politici di rango nazionale – interpreta la questione migratoria, incluso il caso dei richiedenti asilo, come un fenomeno da arginare, una minaccia per la coesione nazionale.

Giusi Nicolini, guardando quel braccio di mare che separa Lampedusa dalle coste africane, vede persone che rischiano la vita per avere un’occasione di cambiare il proprio insopportabile percorso esistenziale. Gli altri considerano quel braccio di mare, divenuto un cimitero di senza nome, come un confine debole, troppo poroso. Nicolini ha un’idea lineare del diritto d’asilo e non accetta che debba essere esercitato come se fosse una roulette russa, accessibile solo se il colpo di pistola non esplode (cioè se la barca non si incendia o non va a fondo): perché la richiesta d’asilo non può essere presentata prima di partire, in modo che il viaggio sia sicuro, su normali traghetti o altre imbarcazioni?

I secondi vivono il terzo comma dell’articolo 10 della Costituzione come una fastidiosa fonte di problemi. Per loro il diritto d’asilo è una bella affermazione di principio, utile forse per casi numericamente limitati, cioè per questo o quel singolo dissidente di regimi autoritari, ma scomoda al giorno d’oggi, con le fughe di massa da guerre civili e regimi militari in paesi vicini per posizione geografica (Libia, Siria) o per ragioni storiche (Somalia, Eritrea).

La commozione, dopo la tragedia del 3 ottobre, è stata grande in tutto il paese, ma la linea-Nicolini è stata subito archiviata. Non ci saranno traghetti a fare la spola fra la costa africana e la Sicilia e la facoltà di chiedere asilo resterà un premio per i sopravvissuti alla prova mortale dell’attraversamento del mare. Il governo italiano ha reagito allo choc del 3 ottobre in modo opposto alla saggia sindaca di Lampedusa e ha messo in campo la missione “Mare Nostrum”.

Una missione “umanitaria militare” che ripropone, invertendo gli elementi, il concetto di “guerra umanitaria”. Qui non si compie un’aggressione militare per “riportare la democrazia” o “tutelare i diritti umani”, ma si affronta una questione di diritti civili schierando una nave anfibia con elicotteri, droni, due pattugliatori e due fregate. Il controllo del mare sarà quindi più serrato: gli scopi dichiarati sono molteplici, dal soccorso ad eventuali imbarcazioni in difficoltà, alla caccia ai trafficati, all’accompagnamento dei navigli intercettati nei porti più sicuri (non necessariamente italiani). In sostanza, si tenta per l’ennesima volta di mandare un messaggio a chi sta al di là del mare: non partite.

“Mare Nostrum”, con tutta la sua carica intrinseca di violenza e il suo messaggio di rifiuto dell’altro, è il frutto di decenni di politiche autoritarie e anti democratiche cresciute attorno al tema delle migrazioni. Il nome scelto per la missione, in questo senso, è quasi una confessione (non sappiamo quanto consapevole): è l’espressione che usava Benito Mussolini all’epoca dell’espansione coloniale al di là del Mediterraneo. E’ un’espressione che rimanda a una pagina terribile del nostro recente passato, una pagina vilmente rimossa. A fronte delle centinaia di vittime somale ed eritree sono stati spesi fiumi di parole, ma si è evitato di rimarcare il legame che lega il nostro paese a quei popoli e quindi il peso della reponsabilità che ancora dovremmo sentire. Igiaba Scego, scrittrice italiana di origine somala, è stata fra i pochi a inorridire per il nome (anche per il nome) dato alla missione “umanitaria-militare” e ha commentato amaramente: “Qui l’unico passato che si ricorda è Carosello e Lascia e raddoppia, ci si culla nel nulla infinito”.

“Mare Nostrum” è l’esito di leggi sbagliate e illiberali, dalla Turco-Napolitano alla Bossi-Fini, è figlia di una cultura democratica che non crede più in se stessa, nei suoi valori di fondo e quindi ragiona solo di numeri – “come facciamo ad accogliere tutti? non c’è lavoro per questa gente” – e taccia di demagogia chiunque osi dare un senso pratico alle affermazioni di principio sulla dignità della persona. A Lampedusa il 3 ottobre 2013 è colato a picco il diritto d’asilo, un piccolo-grande principio del pensiero democratico.

Al tempo della guerra fredda, la possibilità di emigrare era considerato un metro di misura del grado di libertà/non libertà dei paesi del socialismo reale: si diceva che gli jugoslavi erano più liberi di russi e polacchi, che la libertà di muoversi è ciò che distingue l’umanità dalla piante… Oggi l’Europa serra le sue frontiere e sostiene di farlo con intenti democratici; forse è il tempo di tornare a teorizzare un nuovo diritto umano e di affermarne la prevalenza sul tornaconto dei governi nazionali di partenza e d’arrivo: il diritto di emigrare, di lasciare il proprio paese, di inventarsi una nuova vita altrove.

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