Da clandestini a migranti per mitigare lo scandalo
E’ stato notato, da Raffaella Cosentino, su “Redattore sociale” e su “Parlare civile”
che un piccolo miracolo la visita del papa a Lampedusa l’ha già compiuto. Sulla maggior parte dei giornali, si è abbandonata la locuzione stigmatizzante “clandestino” e si è usato “migranti”.
Come i lebbrosi nel medioevo, i “clandestini” di oggi hanno subito una costruzione sociale e mediatica, perché li trovassimo repellenti prima ancora di chiederci di che cosa si tratta. A ciò è servito anche il notato e generalizzato evitamento della sostituzione sinonimica, nonostante a quella sostituzione redattori sono inclini quasi quanto le maestre di una volta – come è stato notato da Paolo Nori in una pagina comicissima (la 98) del romanzo “Diavoli”. E abbiamo assistito alla ripetizione ossessiva, anche decine di volte in un articolo, di “clandestino”, senza che un sinonimo ci aiutasse a immaginare che cosa possa significare questo termine, a parte la demonizzazione, per chi lo scrive.
Per via di quella costruzione sociale, quando un altro Francesco, quello di Assisi, si venne a trovare in mezzo ai lebbrosi, non ci poteva essere nulla di più “amarum” per lui, come confessa lui stesso nel bellissimo testamento. Tale amarum si trasforma, improvvisamente, in perfetta letizia, e da lì a poco Francesco esce dal mondo (che non vuol dire che muore: anzi). Ma se i lebbrosi, a metà dell’incontro, avessero smesso di essere tali e fossero diventati “ammalati bisognosi di cura”, sarebbe difficile immaginare il senso della conversione (la parola è in quel testo) che accade a Francesco d’Assisi: che si tratti di un accadere cui lui sta in mezzo, lo fa notare lui con un’audacia linguistica.
L’altro Francesco, accostatosi a quei reietti chiamati per un ventennio “clandestini”, se li è visti trasformare in innocui “migranti”: il che tende a vanificare lo scandalo del suo gesto, che vorremmo si mantenesse e ci interrogasse.
Domani, i “migranti” di Lampedusa torneranno a essere chiamati “clandestini”: e così si chiamerà anche il profugo eritreo che, superate le violenze che gli vengono opposte e di cui siamo complici, arriverà finalmente sulla riva del Mediterraneo, prima ancora che parta.