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Bambini, donne, migranti: una questione di pluralità

Un interventi di Giuseppe Faso dopo la campagna sulle "bambine mai nate". Una questione da affrontare senza riprodurre schemi infondati e facendo tesoro della lezione di Amartya Sen, per ridisegnare le politiche di accoglienza
7 dicembre 2011 - Giuseppe Faso

 

Il come e il perché

 

Dopo le sparate sensazionalistiche delle settimane scorse, su “Repubblica” di Firenze interviene Anna Meldolesi, autrice del libro “Mai nate”, ed. Mondadori Università, usato come pretesto per titoli ed espressioni irresponsabili (“strage delle mai nate”, 500 bambine fantasma”, etc.). Il titolo “bambine fantasma”, come un marchio di fabbrica di successo, non viene dismesso, ma il tono dell’autrice è più misurato rispetto a quello dei suoi entusiasti neo-supporters, e mancano nel suo pezzo alcune volgarità insoffribili che abbiamo dovuto leggere di recente.

Bambini

Meldolesi propone “iniziative che la Toscana potrebbe prendere per porsi all’avanguardia nel contesto nazionale e internazionale”. E’ un argomento che non ci piace, quello del primato, e l’abbiamo già indicato nelle analisi precedenti. Ci basterebbe che in Toscana (e altrove) si ragionasse in maniera sempre più efficace per individuare con più precisione il fenomeno e per prevenire scelte come l’aborto selettivo.

Parlarne come Repubblica: ma scherziamo?

Quattro i punti proposti: “Primo: bisogna parlarne, come sta facendo Repubblica. E’ necessario creare un movimento di opinione, senza asserragliarsi nelle trincee culturali scavate dalla legge194.”. Due osservazioni. 1. Parlarne, ma non come sta facendo Repubblica, secondo i toni e linguaggi cialtroneschi che abbiamo assaggiato, da cui vanno prese severamente le distanze. 2. Che ci si asserragli nelle trincee culturali scavate dalla legge 194 è una bella immagine poetica ma è un’illazione. Si attribuisce preventivamente alla società e alle autorità toscane un atteggiamento non suffragato da prove.

Generalizzazioni “squallide” (Sen)

Secondo: raccogliere dati. (…) Bisogna affinare e integrare le statistiche e inserire il tema della selezione prenatale del sesso nelle indagini sul comportamento riproduttivo delle immigrate.” Naturalmente, a parte le due parole finali: perché non di tutte, con possibilità di lettura secondo origine, età, territorio, etc.? le cause dell’aborto selettivo potrebbero ripresentarsi fuori da schemi un po’ d’accatto, come quelli culturalistici improvvisati, che sono infatti ridicolizzati dal premio Nobel per l’economia Amartya Sen, tanto citato sull’aborto selettivo e poco letto e tanto meno meditato; altrimenti ci si ricorderebbe alcuni suoi avvisi preziosi, come questo: “generalizzazioni culturali, come ad esempio quelle relative ai gruppi nazionali, etnici o razziali, possono presentare una visione incredibilmente squallida e limitata delle caratteristiche degli esseri umani coinvolti”. Una lettura meno preorientata dei dati permetterebbe anche, col tempo, di valutare l’efficacia di interventi sperimentati in un territorio e non in un altro, di individuare in maniera meno mitologica (le “radici cultiurali”) gli ostacoli e le inerzie, eccetera.

Siamo d’accordo, naturalmente, sul punto

Amartya SenTerzo: sensibilizzare gli operatori sanitari. Vietare tout-court ai medici di rivelare ai genitori il sesso del nascituro non è un’opzione. Ma si potrebbe discutere se scoraggiare la comunicazione precoce di questa informazione, nei casi in cui non è necessaria per ragioni mediche. La villocentesi consente di distinguere il sesso già a 10 settimane e qualche laboratorio inizia a offrire test genetici capaci di rispondere a 8 settimane di gravidanza, con un semplice prelievo del sangue materno. E’ un business che potrebbe crescere, vogliamo lasciarlo senza regole?”

Il fantasma delle comunità mai state

Qualcosa da precisare sull’ultimo punto:

Quarto: coinvolgere le comunità interessate. L’integrazione non può prescindere dal rispetto dei diritti delle donne, che includono anche quello di non essere discriminate sul nascere.”

A parte l’uso del termine “integrazione”, di uso corrente ma improprio, soprattutto in un contesto come la frase in esame, il richiamo al rispetto dei diritti delle donne non può che essere salutato con favore, dopo la maggior parte degli interventi precedenti. Purchè si ricordi che bisogna stare attenti a non confondere diritti individuali, finora troppo poco riconosciuti, e un principio sacrosanto, quello di non essere discriminati sul nascere. Non mi interessa qui il discorso giuridico (ben venga! io non ne sono capace), quanto una considerazione pratica: il rispetto, cui è giustissimo richiamare, dei diritti del feto a non essere discriminato in base al genere, per essere condiviso in maniera efficace non può essere precedente e preponderante rispetto al rispetto degli individui in carne ed ossa. Per questo, bisogna prefiggersi di operare preliminarmente nella direzione che Meldolesi indica in maniera inappropriata e perciò prevedibilmente inefficace. “Coinvolgere le comunità interessate”.

Coinvolgere” non è ascoltare, e neppure “pattuire regole”, perché rappresenta come passiva una massa compatta (la “comunità”) che viene presupposta come esistente. La rappresentazione di “comunità” miticamente chiuse nelle loro “radici culturali” (tema ricorrente negli interventi precedenti, qui attenuato ma non abbandonato) riduce la pluralità delle presenze, delle scelte, dei comportamenti a una caricatura buona, come scriveva Sen, per “barzellette razziste e ingiurie etniche”, e a volte sfociante, dice sempre il grande scienziato sociale, in “grandiose teorie”. Ne vengono cancellate semplicemente le esistenze concrete che magari si proclama di volere rispettare. Prendete una cara amica, M. E’ donna, ha avuto due femmine (casualmente, e ne è felice), laureata (ma lavora alla cucitura di pelli), cristiana (ma fatica a riunirsi con i suoi amici di una chiesa evangelica), eterosessuale (ma in prima linea nella difesa dei diritti degli omosessuali), anticonformista, nel tempo libero dipinge ed è una grande tifosa di una squadra di calcio. Non è molto alta, ha i piedi un po’ lunghi, la carnagione di porcellana che nasconde bene, senza cosmetici, gli anni trascorsi. E poi è anche cinese: una di quelle che si vorrebbe che le autorità raggiungessero in quanto appartenenti a una comunità. A quale? Quella evangelica? Quella dei pittori?

Comprendere la pluralità: oppure ridurla secondo immaginarie “radici”

Non ci sono “comunità”, nonostante qualche gruppetto, sulla spinta del riconoscimento coatto (e a volte foraggiato, con le briciole delle feste folk e simili) da parte della società di accoglienza, si autodefinisca tale. Ci sono popolazioni diverse, e ci sono individui differenti, che arrivano in tempi e luoghi diversi, da luoghi diversi, tanti puntolini a volte poco visibili sulle carte geografiche; e danno luogo a rimescolamenti, percorsi biografici innovativi, conflitti intergenerazionali e tra generi, messa in discussione di saperi e comportamenti tradizionali o ripiegamento su di essi, secondo le relazioni con la società di accoglienza, con le sue istituzioni, le sue inerzie o capacità di innovazione, le sue leggi più o meno discriminatorie e più o meno capaci di riconoscere diritti. Uno studioso scomparso prematuramente, Renzo Rastrelli (ah, Renzo, come ti divertiresti se potessimo raccontarti di un giornalista che si aggira per Firenze da alcuni giorni ululando che gli mancano le bambine mai nate!) ci ha insegnato come per comprendere ogni significato anche piccolo di gesti e comportamenti di un individuo di nazionalità cinese migrato in Italia sia necessario lavorare sulle relazioni che egli vive con la società di accoglienza, e quanto sia mendace l’immagine del “bagaglio culturale”: un insieme di elementi che viene ricomposto come un puzzle, in cui le tessere più vecchie e quelle acquisite non sempre sono riconoscibili, e si contaminano a vicenda. A meno che, naturalmente, non prevalga il coro differenzialista, questo è “tuo”, lo nego, l’osservo, lo documento, e non mi va bene, e questo è “mio”, al centro dell’universo: assimilarsi o perire. “Noi” civilizzati monitoriamo “voi”, barbare abortiste. E così via.

Pronto? Sei la comunità x? Vieni, che ti educo

Bambini

Per questo, ci sembra votato all’insuccesso ogni tentativo di “coinvolgere le comunità”. Avete il numero di telefono della “comunità”? Siete sicuri che basterà che dall’altra parte ci sia qualcuno, in ascolto solo passivo? E se vi risponde un maschio autonominatosi capo, gli trasmettete gli ordini per le femmine? Viviamo, secondo i sociologi della complessità, immersi in mezzo a fenomeni di regressione neotribale, e ci immaginiamo gli altri come appartenenti a tribù. Si tratta dell’approccio che Sen, citato come autorità sulle bimbe mai nate ma evitato come la peste dai neoconvertiti a questa crociata, perché intelligente, chiamava “solitarista”, aggiungendo che esso “può essere un buon metodo per interpretare in modo sbagliato praticamente qualsiasi abitante del pianeta”. Sen sostiene, con ottimi argomenti che sfuggono a chi preferisce trastullarsi con le immagini delle presunte chiusure altrui, che ridurre le relazioni interpersonali a relazioni tra gruppi, e istituire presunte comunità, anche esprimendo le migliori intenzioni di dialogo, “equivale a perdere per strada gran parte dell’importanza della vita umana”. Proprio questo abbiamo imparato negli ultimi decenni, relazionandoci con individui, donne e uomini, bambini e anziani, ciascuno diversamente differente dagli altri: l’importanza della vita umana. E sono questi percorsi che ci fanno apparire pusillanime (cioè inferiore ai compiti che proclama) chi proclama rispetto per la vita e poi parla di comunità.

Ridisegnare le politiche di accoglienza, nodo centrale per il rispetto della vita umana

Vogliamo continuare a inquadrare chi è venuto da fuori in comunità, secondo un approccio solitarista, e perciò fallendo la comprensione di qualsiasi abitante del pianeta? O vogliamo realizzare percorsi efficaci di ristabilimento della centralità del rispetto della vita?

Nel caso che si voglia fare davvero, bisognerà, intanto che si raccolgono i dati (più abbondanti, come ammette l’autrice del libro), rimettere in moto un discorso pubblico sull’accoglienza, che veda protagoniste-i le e gli immigrati presenti sul territorio, amministratori che recuperino il patrimonio di sapere prodotto in alcune zone ed elaborato dall’Anci-Toscana prima dell’attuale abbandono, e che siano capaci di mettere in discussione apertamente i comportamenti regressivi segnati da alcuni di loro, del loro stesso orientamento politico.-

 

 

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