Luigi Manconi: "Giusto non chiamarli più clandestini"
da L'Unità del 5 dicembre 2008
Due agenzie di stampa, Redattore sociale e Dire, hanno deciso di escludere totalmente dal linguaggio delle loro notizie e dei loro resoconti la parola «clandestino». Hanno spiegato che quel termine è profondamente discriminatorio in quanto enfatizza, della questione dell’immigrazione, il solo aspetto della illegalità, assimilando a questo un’intera popolazione di stranieri. Il direttore dell’Agi, Giuliano de Risi, si è dichiarato d’accordo impegnandosi a procedere nella medesima direzione. È un fatto assai più significativo di quanto potrebbe sembrare in apparenza. In Italia, ahi noi, domina ormai una civetteria da anticonformismo all’amatriciana, che induce molti - anche a sinistra - a spregiare come presunto effetto perverso del «politicamente corretto» l’attenzione (doverosissima) al linguaggio.
Come dovrebbe sapere chiunque abbia fatto la scuola dell’obbligo (con maestro unico o più maestri), la lingua non è puro suono: è una costruzione potente che condiziona il senso comune e la mentalità condivisa. Da sempre, le lotte per l’emancipazione sono (anche) lotte per il riconoscimento del diritto al proprio nome: quello che il soggetto sceglie perché il solo capace, a proprio insindacabile parere, di esprimere la sua irripetibile unicità (come persona, minoranza, collettività).
E invece la bolsa retorica del parlar chiaro (e delle maniere spicce) e la determinazione a dire pane al pane e vino al vino si traduce nella voluttà - così controcorrente, signora mia - di chiamare «negro» chi ha un colore della pelle diverso. In questi casi, mi viene da pensare a quella lunghissima e dolente catena di lettere ai quotidiani, in genere pubblicate con nulla o scarsa evidenza, nelle quali veniva lamentata la persistente ottusità con cui televisioni e giornali definivano «mongoloidi», fino a non molto tempo fa, le persone affette da sindrome di down.
A ciò si deve aggiungere che il termine clandestino, oltre a essere pesantemente discriminatorio, è del tutto sbagliato: coloro che vengono chiamati clandestini sono, in realtà, responsabili esclusivamente di un illecito amministrativo, in quanto hanno violato le norme sull’ingresso e la permanenza sul nostro territorio nazionale. (Commettono reato solo se e quando non ottemperano all’ordine di allontamento). Di conseguenza, quella definizione oltre a risultare oltraggiosa (confina quelle persone in una dimensione di anonimato e di esclusione), attribuisce una etichetta permanente a partire da una condizione transitoria, dovuta al fatto di essere nato lì, in quel lembo di mondo, e non qui, nel nostro lembo di mondo.