La viltà di chi usa la parola clandestino
CLANDESTINITA' - di Giuseppe Faso
Quando si passa dalle ipocrisie
giustificate dalle convenienze
sociali al linguaggio diretto,
qualcosa si guadagna (in
chiarezza) e altro si perde (in contegno,
come lo intendeva Goffman).
Si osservi l'evoluzione dell'uso di "clandestino".
Pochi mesi fa, con ipocrisia, i governanti
parlavano di "lotta alla clandestinità" - e
conducevano una lotta, non sempre blanda,
contro singole persone chiamate "clandestini";
oggi si proclama direttamente la
"lotta al clandestino", da quella istituzionale
(il "clandestino" come reo) a quella
socio-criminale (l'aggressione per strada,
il pogrom), tra loro unite profondamente
e separate in superficie da pochi anelli di
una catena: il razzismo eretto a sistema.
Chi si oppone debolmente, sembra destinato
non solo a debacles e ritirate locali,
ma a una sconfitta epocale. Uno dei motivi
principali sembra risiedere nella scelta di
opporsi alla "clandestinità come reato",
ripetendo, dell'avversario, una categorizzazione
e così confermandola. Perché non
ci si oppone, come in Francia o in Spagna,
alla "mancanza di documenti come
reato"? Sans-papiers, sin-papeles: perché
"clandestini"?
L'analisi che qui si conduce sulle quotidiane
parole che escludono non vive solo a
stampa. Conduco esercizi di spiazzamento,
semplici e spesso efficaci. Chiedo alle persone
di cercare di ricordare cosa dicevano,
sei anni fa, invece che "badante", quindici
anni fa, invece che "etnico", vent'anni fa,
invece che "culturale". Sfogliamo insieme
giornali di allora, consultiamo banchedati.
Spesso la prima reazione è paranoica,
poco plausibile ("ho sempre detto così"), e
la resistenza alle successive evidenze patetica
- segno di un peggioramento del clima
civile, dovuto soprattutto a chi, avendo
accesso ai media, da intellettuale o politico
inquina quotidianamente il linguaggio
del senso comune. Talora invece l'onestà
intellettuale dell'interlocutore produce in
lui vere sofferenze.
Così è accaduto a un ex-sindaco, sul termine
"clandestino". Gli ho chiesto come
li pensava, lui, i senza documenti, quando
nel '90 o nel '95 li aiutava nella ricerca
delle "prove" della loro presenza, per potersi
regolarizzare; o quando, nell'ottobre
dell'89, la giunta da lui presieduta concedeva
un piccolo contributo a un pullman di
sans-papieres in partenza per la manifestazione
nazionale antirazzista (e per l'apertura
di una sanatoria) dopo l'uccisione di
Jerry Masslo.
La coscienza esatta del linguaggio
di allora ("li chiamavamo immigrati,
semplicemente") e della diffusione
successiva del termine "clandestino" lo ha
sbigottito. Balbettava. Anche perché ha
misurato il cambiamento avvenuto dentro
di sé: "se dico clandestino indico qualcuno
che ha fatto qualcosa di male".
Clam-die-stinus, infatti, significa "che si
nasconde di giorno".
Per due motivi: o perché agisce contro
precisi decreti (come attestato fin prima
del 1600 in Bernardo Davanzati) oppure
perché si è imbarcato di nascosto in una
nave o in un aereo, come indicava un dizionario
già nel 1950. Più tardi, un bel
romanzo di Mario Tobino ci ricordò che
"clandestino" era anche il gruppo di antifascisti
viareggini che presero le armi
contro i tedeschi (rischiando la vita contro
precisi decreti).
Raffigurare in questo
modo chi è senza documenti è malvagio, e
copre la volontà perversa a costringerlo a
star nascosto, nei cantieri, nelle cucine dei
ristoranti, nelle case di chi ha anziani da
assistere. Nascosto, impaurito, ricattabile.
Senza carte e senza diritti.
Per lottare contro un'ulteriore ferita alla
dignità delle istituzioni e della società,
bisogna chiedere il riconoscimento immediato
dei diritti, la "concessione" delle
carte, e ricordare che la loro mancanza
(un'infrazione amministrativa) è dovuta
alla miopia di uno stato le cui classi dirigenti
poi si meravigliano di criminali
raid razzisti (ma non li perseguono, come
a Ponticelli).Ma è urgente anche, e prima,
una campagna che metta al bando la
parola "clandestino".
chi continuerà a usarla sarà per lo meno
un pusillanime.