John Foot sull'uso della parola clandestino
La parola per non dirlo
Ma quand'è che una persona diventa un clandestino? Quando scade il suo permesso di soggiorno?
Internazionale 758, 21 agosto 2008
Le parole sono importanti, come ha detto una volta un noto regista italiano. E quando parliamo di immigrazione e di immigrati, le parole sono ancora più importanti. Clandestini, extracomunitari, rom-rumeni, nomadi, neri, negri, sinti, islamici, marocchini, moldavi: la tv, i giornali e i politici italiani fanno molta confusione sul tema dell'immigrazione.
Chi sono queste persone e come dovremmo chiamarle? Per fortuna il termine razzista vucumprà sembra quasi scomparso, ma per il resto le cose non sono molto cambiate. L'espressione extracomunitari sembra passata di moda, visto che il nemico pubblico numero uno sono diventati i rom o i rom-rumeni, che hanno la "fortuna" di far parte dell'Unione europea. Oggi il termine più usato è clandestini. Soffermiamoci un momento su questa parola. "Solo in Italia li chiamiamo clandestini perché il nostro lessico è povero e spaventato come noi", ha scritto Francesco Merlo sulla Repubblica del 10 giugno.
Clandestino sembra fare riferimento a qualcuno che si sottrae alla legge e alle forze dell'ordine, una persona che si nasconde, di fatto un criminale (secondo le nuove leggi italiane) a causa della sua sola esistenza. Ma quand'è che una persona diventa un clandestino? Quando scade il suo permesso di soggiorno? In base alle leggi italiane pare proprio di sì. Qualcuno può vivere e lavorare legalmente in Italia per anni, e trovarsi nell'impossibilità di rinnovare i propri documenti.
Così si può diventare improvvisamente un clandestino, responsabile di una serie di reati punibili con il carcere, tra cui quello di "essere" un clandestino. Ma cos'è in realtà un clandestino? Una persona senza regolari documenti d'immigrazione: ecco una definizione meno minacciosa, ma molto più accurata.
E tutte le persone che cercano di arrivare in barca in Italia? E quelli che non ci riescono e i cui corpi rimangono in fondo al mare? Sono migliaia. Anche loro sono – o erano – dei clandestini? In base alla stampa italiana, ai politici e ai mezzi d'informazione, la risposta è spesso sì.
Prendiamo per esempio un articolo del 15 agosto 2007 del più importante giornale italiano, il Corriere della Sera. L'articolo cominciava così: "Immigrati, avvistati cadaveri in mare. Una motovedetta della Guardia di finanza ha recuperato sei cadaveri in mare a 50 miglia a sud di Lampedusa. Fanno parte del gruppo di 14 corpi di clandestini individuati da un aereo Atlantic della Marina militare in una zona di ricerca e soccorso (Sar) di competenza maltese".
In realtà questi "clandestini" avevano solo cercato di avvicinarsi alle coste italiane, ma purtroppo per loro sono morti nel tentativo di diventarlo. Erano solo "clandestini potenziali", e non sono neanche riusciti a ottenere lo status che desideravano tanto. Almeno fino a quando questi stranieri non arrivano sul suolo italiano, giornalisti e politici potrebbero e dovrebbero dargli la possibilità di essere persone: africani probabilmente, o migranti (dopo tutto l'immigrazione, al contrario della clandestinità, ha una lunga e nobile tradizione). Potremmo almeno cercare di umanizzare la morte.
Ma non è questo il punto: gli immigrati potenziali devono rimanere senza faccia, senza identità, essere solo una categoria pericolosa. È molto più facile infatti discriminare una categoria invece di qualcuno che ha un nome, una famiglia, una storia personale. L'uso della parola clandestino fa parte di quella che Zygmunt Bauman ha definito la "produzione sociale dell'indifferenza morale". Questa gente deve rimanere una massa informe e minacciosa di stranieri. Non possono essere considerati solo dei cittadini privi dei requisiti giuridici o dei documenti necessari (come tutti gli italiani sanno, in questo paese non è facile ottenere con rapidità i documenti), ma una vasta categoria senza volto di potenziali criminali, che ci spaventano e continuano ad arrivare ogni giorno a migliaia, nonostante le nuove leggi, l'esercito nelle strade e i pacchetti sicurezza.
Negli anni settanta un gruppo di sociologi urbani inglesi, che lavorava nell'ex città industriale di Birmingham, studiò il modo di rappresentare il rapporto tra crimine e origine etnica nei mezzi d'informazione locali. E si concentrò sul "panico morale" connesso agli scippi, un tipo di reato che era associato – nei mass media e nell'opinione pubblica – con la popolazione giovane di colore. Il legame tra le due cose è stato apertamente dichiarato dai giornalisti e dai politici, e ha contribuito a gettare le basi di un nuovo progetto politico – il thatcherismo – che in seguito i sociologi avrebbero chiamato "populismo autoritario".
Mi sembra che stia accadendo qualcosa di simile oggi in Italia, dopo venticinque anni di immigrazione. Nell'opinione pubblica il crimine è legato ad alcuni gruppi definiti "etnici". La semplice presenza di immigrati basta a creare timore e la richiesta di "sicurezza" domina il dibattito politico. Ci sono addirittura i soldati per le strade per proteggerci da "loro". In questa situazione la battaglia sul linguaggio è fondamentale, e i giornalisti hanno il dovere di stare in prima linea.