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Questo sito e' un contenitore di materiale vario senza nessuna organizzazione logica. L'artigiano di questa fabbrica di parole e' Carlo Gubitosa: scrittore compulsivo, sedicente ingegnere, appassionato di cause perse e tecnofilo cronico.

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La mia terra la difendo

La mia terra la difendo
Un ragazzo, una protesta, una scelta di vita

La mia terra la difendo

La rabbia e la speranza di un ragazzo che amava la sua terra. La storia di Giuseppe, il ventenne di Campobello di Licata che ha affrontato "il pregiudicato Sgarbi" con una telecamera, due amici e un pacco di volantini.
Carlo Gubitosa

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Guerra, razzismo, P2 e marchette: un atto d’accusa ai giornalisti VIP

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Se siete a caccia di pennivendoli famosi con le mani sporche di guerra, marchette, p2 e razzismo anziche' di inchiostro, questo e' il libro che fa per voi. Il consiglio e' disinteressato: io non ci guadagno niente sul venduto perche' mi pagano a forfait, lo dico per quelli che hanno problemi di schiena a tenere in mano un pesante tomo di Travaglio e vogliono qualcosa di piu' agile da leggere in bagno.
12 febbraio 2011 - Carlo Gubitosa

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Mi intervistano sul lavoro gratis

Inchiesta sui blog #1 – Intervista a Carlo Gubitosa

Per vivere di scrittura l'online non basta: bisogna tenere un piede anche nelle redazioni e affacciarsi sulla microeditoria.
12 febbraio 2013 - davidegangale

Giornalismo

Inchiesta sui blog #1 – Intervista a Carlo Gubitosa

by davidegangale

LA SIGARETTA DEL GUERRIERO pubblica la prima di una serie di interviste sul tema della sostenibilità economica dei blog e della produzione indipendente di contenuti editoriali e giornalistici, online e offline. Si comincia con Carlo Gubitosa, giornalista freelance e saggista, direttore responsabile di Mamma!la prima rivista italiana di giornalismo a fumetti. 

Sono partito dall’aver letto un tuo pezzo su LSDI, pubblicato a settembre del 2012: “Giornalismo, professione che diventa hobby”. Un articolo che a cinque mesi di distanza continua a ricevere commenti e che ha sollevato una serie di tematiche importanti…

Ha suscitato un vespaio, sì!

Ecco. A questo proposito ti chiedo: la tendenza che rischia di trasformare il giornalismo in un hobby non retribuito, quando nasce e perché?

Nasce quando i grandi gruppi editoriali scoprono il fenomeno dei blog e cercano di fagocitarlo. Il campione di questa tendenza è l’Huffington Post, che ha costruito il valore della propria testata fondamentalmente attorno a manodopera gratuita. Manodopera che, pur avendo tentato una class action, non ha visto riconosciuti i propri diritti. Si è così affermato il principio pericolosissimo per cui il compenso di chi scrive sull’Huffington Post è la visibilità. E secondo cui dei milioni di dollari guadagnati dalla signora Huffington, senza aver mai scritto nemmeno un rigo o poco più, a chi aveva materialmente prodotto quei contenuti non spettava nulla.

Quindi il paradigma di questa tendenza secondo te è l’Huffington Post.

Sì. E’ un modello di business che da noi ha attecchito con effetti ancora più devastanti. Perché un precario che lavora gratis per il grande aggregatore, in Italia quell’aggregatore lo paga varie volte. La prima volta lo paga quando versa le sue tasse allo Stato, e parte di quelle tasse vanno al gruppo L’Espresso che è il brodo di coltura in cui è nato l’Huffington Post italiano. E qui c’è già un primo esborso di denaro. Il secondo esborso avviene quando il giornalista compra magari dei prodotti pubblicizzati sull’Huffington Post, e all’Huffington arrivano introiti pubblicitari di cui i produttori dei contenuti continuano a non vedere nulla. E la terza volta non è un versamento di denaro, ma è il risparmio che deriva dal mettere il numero zero nel bilancio alla voce “compensi dei collaboratori”. Al mio articolo su LSDI è seguita una levata di scudi. E paradossalmente le reazioni più accanite non sono state quelle dei responsabili commerciali o dei manager dei grandi gruppi editoriali, ma quelle di blogger e freelance che dicevano: “tu così ci vuoi imbavagliare, ci vuoi negare il diritto alla libera espressione”. No. Io sto solo dicendo che se devi scrivere gratis, fallo per te e non per altri che lucrano sulla tua scrittura. Mi sembra un normale principio…

Condivido. I blog però sono un fenomeno che è esploso a cavallo della metà del decennio scorso. Tu scrivi che dieci anni fa, per scrivere un articolo da freelance sul sito di un grande gruppo editoriale, venivi pagato 100 euro. Oggi quello stesso pezzo quanto viene pagato?

Oggi la distinzione tra l’online e la carta è sempre più sfumata. Ci sono testate online che erogano compensi paragonabili a quelli dei vecchi quotidiani, e ci sono quotidiani che pagano anche due euro a pezzo. Corrispondenti alle tariffe che inizialmente si vedevano solo su Internet. Potrei dirti anche che per quello che scrivo io, cerco di farmi pagare almeno secondo il tariffario che è stato stipulato tra la Fnsi e l’Uspi, l’unione della stampa periodica che non comprende i quotidiani ma periodici settimanali e mensili. Cerco di fare riferimento a quel tariffario. Però il problema è che oggi, con il libero mercato delle professioni, in un libero mercato di libere volpi con libere galline, c’è sempre qualcuno che si farà pagare meno di te per scrivere le stesse cose, pensando che alla fine, alla lunga, il fatto di aver esposta la sua firma e non la tua, lo ricompenserà di questo gioco al ribasso.

Quindi: tra blogger che accettano di lavorare gratis pur di avere visibilità, sindacato dei giornalisti ed editori, a chi attribuisci le responsabilità maggiori di questa situazione? In che proporzione?

In questa equazione io includerei anche il pubblico. Perché il pubblico oggi è facilmente ingannabile. Nel senso che sull’Huffington Post ma in generale su un grande aggregatore, tu puoi far scrivere anche gente che di giornalismo non capisce nulla: puoi far scrivere lo psicologo, il giurista, la commentatrice, l’opinionista televisivo, il giocatore di calcio… E’ come se tu, in una pizzeria o in un ristorante, mettessi delle massaie che capiscono bene la cucina domestica – o più o meno bene,  ma che di ristorazione non hanno grosse conoscenze. E quindi in questa equazione c’è da una parte un pubblico sempre più analfabeta e sempre più abbruttito dall’esposizione televisiva. Basti pensare che in Italia solo il 15% della popolazione legge più di un libro all’anno, secondo i dati Istat. A questo pubblico abbruttito, e con un fortissimo analfabetismo funzionale, analfabetismo di ritorno, si aggancia un’offerta giornalistica sempre più scadente. Perché se io da azienda editoriale posso fare la pizza mettendoci sopra la plastica anziché la mozzarella, scelgo la plastica che mi costa di meno. Analogamente, se il grande gruppo editoriale può fare portali e aggregatori con improvvisati dilettanti senza ricorrere a persone con una professionalità documentata – o nel tesserino, o nel curriculum: perché non c’è solo l’iscrizione all’albo per documentare una professionalità, no? -  diciamo, se si può evitare di ricorrere a professionisti lo si fa volentieri, per risparmi di cassa. Infine, c’è una classe professionale di giornalisti con un baratro generazionale. Da un parte del baratro abbiamo una categoria professionale fatta di gente che sta in redazione, gente contrattualizzata, gente superata, gente sindacalizzata e difesa anche in fase di trattativa con gli editori. Dall’altra parte abbiamo tutto un popolo di precari, che nel mercato del lavoro non sono nemmeno menzionati. Non sono menzionati nel contratto perché i sindacati non hanno avuto interesse a far comparire nel contratto giornalistico queste figure professionali. E non essendo assunti in redazione sono abbandonati al libero mercato, alla libera trattativa privata… solo che poi il libero mercato diventa un libero mercato di libere volpi con libere galline…

Parliamo della formazione dei giornalisti. Per quanto riguarda il giornalismo online, la strada che viene indicata ai giovani che si affacciano alla professione è: apri un blog, trasformalo in un biglietto da visita, perché più seguito avrai maggiori saranno le probabilità di essere assunto e quindi, eventualmente, pagato.

Questa è una fesseria!

Ma esistono secondo te altri metodi per misurare e per retribuire il valore del giornalismo online?

Il problema è monetizzare il giornalismo online. Questo è l’uovo di Colombo.

Ecco. Come si fa?

Si fa intanto convincendosi che non è possibile monetizzare il giornalismo con l’aggettivo online. Uno può monetizzare il proprio giornalismo, in tanti modi e in tante forme. Però, se vuole monetizzare solo e solamente il giornalismo online, è destinato al fallimento. Quali sono i modi per monetizzare e poter dare un valore al proprio giornalismo? Sicuramente avere una presenza online come finestra, come vetrina dei propri materiali può essere un requisito, ma non si può esaurire lì. C’è tutta un’amplissima gamma di possibilità che è offerta dalla microeditoria. Quindi magari io recupero, rivaluto, riscopro anche la carta stampata, e sul mio sito personale stampo 200 copie di un libro che vendo direttamente online, monetizzando la mia capacità di impaginare un libro, mandarlo in tipografia, venderlo e farlo circolare. Oppure posso specializzarmi. Questa è una delle strade più efficaci: cioè essere all’interno di una redazione colui che è considerato il collaboratore esperto su certi temi. Si può essere specialisti degli appalti della TAV o della stagione turistica del Salento: ognuno può scegliere la sua specializzazione e cercare di affermarsi come specialista di un certo tema. Anche qui: non solo su Internet. Ma sudando nei rapporti con le redazioni, nella produzione dei contenuti. Se non c’è un editore che mi pubblica un libro ma sono convinto di ciò che scrivo, me lo autoproduco. Non c’è più bisogno di un grande editore alle spalle. Si può fondare una rivista con un piano editoriale innovativo, raccogliendo soldi dagli abbonati, e quindi  monetizzando non solo l’attività online ma la propria capacità di produrre contenuti editoriali. Nel momento in cui si sviluppa una specializzazione, anche organizzare eventi di formazione su certi temi può essere una linea di monetizzazione. Si può trasformare la propria competenza in eventi di formazione. Il problema è che se ci fermiamo al solo blog, al solo sito web, monetizzare diventa molto difficile.

Quindi il segreto è l’integrazione?

Esatto. E che la carta non è ancora morta e difficilmente morirà in futuro.

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