Omicidio Savarino: secondo test DNA, Remi Nikolić è minorenne. Ma per il tribunale di Milano deve restare a San Vittore.
Rom, rom di etnia sinti, zingaro, nomade di origine slava, slavo nato in Germania. Sul ragazzo recluso a San Vittore per l'omicidio del vigile urbano Nicolò Savarino è stato detto di tutto, ma ora sappiamo che Remi Nikolić è un cittadino italiano nato a Parigi il 15 maggio 1994, fratello di Gojko Jovanović (cittadino italiano nato ad Hamm, Germania), figlio di Snežana Nikolić (cittadina serba nata a Rašanac) e di Zoran Jovanović (che nonostante il suo nome straniero è un cittadino italiano nato a Busnago, nel cuore brianzolo della Padania).
Mentre la comunità Rom di Milano attende invano delle scuse per il trattamento da “caccia allo zingaro” riservatole dalla stampa quotidiana nel corso di questa vicenda, la procura di Milano sarà chiamata nelle prossime ore a misurarsi con questi dati, che oggi noi possiamo confermare in esclusiva dopo aver esaminato i documenti del nucleo familiare e Il test forense del DNA datato 10 febbraio 2012 che ne certifica gli effettivi legami di sangue.
Dati che sembrano consegnare alla cronaca un ulteriore dramma che si aggiunge al lutto della famiglia Savarino: la possibilità molto concreta che un ragazzo minorenne sia recluso in un carcere per adulti tra i più “duri” d’Italia, con la giustizia che si trasforma in vendetta negando quel supporto educativo, psicologico e assistenziale che la legge prevede anche per gli assassini, quando hanno meno di 18 anni.
Un pasticcio aggravato dalle false generalità fornite dal ragazzo, che attualmente è registrato a San Vittore con il nome del fratello ventiquattrenne Gojko, a cui si aggiunge l'ondata di sdegno che ha attraversato il paese in seguito all'omicidio Savarino, aumentando il "peso" sul tavolo del Gip dell'esame radiologico che attribuiva al ragazzo una età approssimativa di diciotto anni.
In assenza dei riscontri che oggi il test del DNA è in grado di fornire, la competenza del caso è stata quindi attribuita al tribunale ordinario, e sono serviti a poco il certificato di nascita rilasciato dalla quarta circoscrizione del comune di Parigi (dichiarato inammissibile in quanto prodotto in copia) e il documento d'identità rilasciato al ragazzo dal comune di Albignasego, che a sua volta aveva provveduto alle opportune verifiche con le autorità francesi.
Per confermare la competenza del tribunale dei minori sul caso del vigile ucciso a Milano, l'avvocato David Russo, che assiste il minore Remi Nikolić, ha richiesto e ottenuto che si procedesse ad un test del DNA per verificare gli effettivi legami di parentela tra le persone coinvolte nella vicenda. Dai risultati delle analisi forensi effettuate dalla sezione dipartimentale di Medicina Legale dell'Università degli studi di Milano, il ragazzo arrestato risulta figlio della signora Nikolić con una probabilità del 99,999% il che dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio che è proprio lui quel ragazzo nato a Parigi "domenica quindici maggio 1994, alle ore ventuno e trentacinque minuti, in rue D'Arcole n.2" e registrato dalle autorità francesi diciassette anni e nove mesi fa come figlio di Snežana Nikolić.
Anche il legame di paternità risulta confermato dalle analisi con valori che "consentono di ritenere i rapporti di maternità, paternità e genitura come praticamente provati".
Le prove sono state presentate nel corso dell'udienza che si e’ svolta il 15 febbraio presso il tribunale del riesame di Milano, dove David Russo, l'avvocato del ragazzo, ha invocato ancora una volta la competenza del tribunale dei minori per questo caso.
"Siamo ben consapevoli che è stata stroncata una vita umana - ha dichiarato l'avvocato Russo - e non possiamo che essere vicini al dolore dei familiari. Ma quello che chiediamo è che venga fatta giustizia, e non possiamo condannare questo ragazzo se prima la giustizia non accerta chi è e quanti anni ha. E' prioritario effettuare questo accertamento - prosegue Russo - perché c'è il rischio che tutti gli atti processuali raccolti finora possano essere considerati nulli in quanto prodotti da un tribunale incompetente".
Ma il 17 febbraio il tribunale del riesame di Milano ha deciso: al collegio giudicante basta un semplice esame radiografico (e non una perizia legale) per determinare che quel ragazzo è maggiorenne con assoluta certezza, e valgono a poco certificati di nascita e test del DNA, di cui potete visionare degli estratti in questa pagina.
Le motivazioni di questa maggiore età "assegnata d'ufficio" sono piuttosto kafkiane. Di fronte a quell'unico esame radiografico, a detta dei giudici Martorelli, Taccone e Corte il dubbio sull'età del nomade "sfuma, ed appare evidentemente superfluo, foriero di inutili costi per la collettività".
E qui l'interpretazione si fa difficile: il dubbio sfuma o è superfluo? Perché se sfuma bisogna capire cosa lo fa sfumare, e quali documenti di prova lo fanno sfumare perfino di fronte ad un test del DNA eseguito dall'Università di Milano. Se invece il dubbio sembra superfluo, allora state violando i diritti di un minore perché il codice penale prevede che in caso di dubbio si facciano degli accertamenti affidando il soggetto al tribunale dei minori fino alla determinazione della sua età, e quindi il dubbio sarà superfluo per il collegio giudicante, ma è fondamentale per il codice penale.
Alle motivazioni incomprensibili si aggiungono quelle risibili: per il tribunale del riesame il ragazzo "in più occasioni, ha dichiarato date di nascita che ne attestano la maggiore età", e poco importa che poi sia stato indagato con l'accusa di false generalità.
Per il collegio giudicante i documenti prodotti dalla difesa si basano su "dichiarazioni di sedicenti parenti e testi", ma la parentela "sedicente" è in realtà biologica, visto che i giudici non hanno in alcun modo confutato il test del DNA eseguito dalla sezione dipartimentale di Medicina Legale dell'Università degli studi di Milano. Semplicemente non lo hanno preso in considerazione.
Inquietante poi l'affermazione in base alla quale sarebbero "costi inutili" quelli sostenuti dalla collettività per la tutela legale dei minori o dei "non certamente maggiorenni", anche quando sono assassini. Chi se ne frega se ha 17 anni e 9 mesi o 18? Lo buttiamo in galera, gettiamo la chiave e risparmiamo anche dei soldi.
Ma la vera motivazione di questa negazione dell'evidenza documentale sembra trasparire da un'altra frase del collegio giudicante, che attribuisce al ragazzo "assoluto spregio per la vita umana", e probabilmente è questa la ragione per cui "si merita" di stare a San Vittore, indipendentemente dalla sua età e da quello che prevede la legge per ragazzi della sua età.
Ma questo non è diritto, è vendetta. Una vendetta che a qualcuno potrà dare una forma di macabra soddisfazione, appagamento o sollievo, ma che di fatto aggiunge una nuova vittima a questa tragedia: lo stato di diritto. Se abbandoneremo la giustizia per passare al giustizialismo, all'elenco delle vittime di questo dramma umano, familiare, cittadino e sociale andrà aggiunta anche la nostra civiltà democratica, che si manifesta anche anche in quel rispetto della persona umana e dei suoi diritti riconosciuto dal codice penale e dalla costituzione anche ai criminali.
Se cederemo all'odio, alla vendetta e alle reazioni di pancia che portano alla negazione dell'evidenza documentale perfino quelli che indossano una toga, su quel maledetto asfalto non avremo perso solo la vita di un vigile, ma anche lo stato di diritto, che un tempo nel nostro paese veniva fatto valere anche per capimafia come Riina e Provenzano, senza processi sommari e con un puntiglioso esame delle carte. E questo nonostante l'"odiosità dei crimini commessi" e il più che assoluto disprezzo per la vita umana attribuito agli imputati.
Oggi questo stato di diritto sembra sospeso per questo ragazzo a cui le carte rifiutate dal tribunale attribuiscono 17 anni e 9 mesi, un ragazzo che possiamo odiare quanto ci pare in quanto assassino o presunto tale, ma che almeno in teoria non possiamo privare di quei diritti che lo stato riconosce "perfino" agli assassini minorenni, a meno di non voler sostituire il codice penale con l'"occhio per occhio".
E noi adulti non dovremmo essere migliori dei ragazzi a cui pretendiamo di insegnare la morale e la giustizia? Vogliamo davvero che l'omicidio che ha portato in galera questo ragazzo trascini a fondo anche noi, in un sonno della ragione che porta i tribunali ad azioni che negano la realtà documentale e il diritto penale? Cedere alla giustizia sommaria non è in fin dei conti una sconfitta per chi cede alla tentazione della barbarie e della vendetta? La giustizia chiara, limpida e cristallina al di sopra di ogni dubbio o sospetto sui diritti negati all'imputato non è anche un dovere di rispetto verso la famiglia della vittima?
Domande, queste, destinate a perdersi nei corridoi del palazzo di Giustizia di Milano, dove il ventennale di "Mani Pulite" verrà macchiato da una grave ingiustizia che nega elementi chiave di fatto e di diritto. Ma questa macchia la vedrà soltanto chi avrà la mente abbastanza aperta da capire la differenza tra la tolleranza verso un omicidio e l'intolleranza verso l'ingiustizia.
La famiglia di questo ragazzo se ne faccia una ragione: la civilissima Italia ha deciso che non merita gli stessi percorsi di recupero riconosciuti agli assassini minorenni, l'ha fatta troppo grossa, ha dato troppo scandalo. E' "maggiorenne ad honorem", perché Milano ha deciso che il Beccaria è un carcere troppo leggero per lui. Che rimanga pure a San Vittore.
L'omicidio dell'agente di polizia municipale Nicolò Savarino e' stato arricchito nella cronaca da molti particolari "etnici", con la comunita' Rom di Milano nel mirino dei titoli di giornale. “Vigile ucciso, è caccia a due slavi" (La Repubblica), Incastrati dal cellulare: sarebbero due rom sinti" (Corriere della Sera), "I Rom finiscono sotto torchio” (Il Giornale), "Blitz nel campo rom ma gli assassini erano appena fuggiti" (Il Giornale), “Basta fare favori ai Rom” (Libero): E' stato questo il tenore dei titoli apparsi nei giorni immediatamente successivi all'uccisione del vigile. A partire da questi titoli, l’ondata di intolleranza si e’ propagata, con articoli a sostegno della pena di morte e vere e proprie istigazioni al linciaggio che hanno attraversato per giorni i blog e i social network. Ma ora la cittadinanza italiana di Remi Nikolic, attualmente recluso a San Vittore, e' un dato consegnato alla cronaca, come le origini "padane" del padre Zoran Jovanović, che nonostante il suo nome straniero è un cittadino italiano nato a Busnago, nel cuore della Brianza. Di fronte al trattamento riservato dalla stampa alla comunità rom in occasione dell’omicidio del vigile Savarino, c'e' chi ha chiesto ragione di quello che a posteriori appare come un “accanimento mediatico”. Tra questi c’è Dijana Pavlovic, membro della "Consulta Rom e sinti" di Milano e vicepresidente dellaFederazione "Rom e Sinti Insieme", che ha stigmatizzato il ruolo giocato dai media e dalla politica in questa vicenda. "E' l'ennesima volta che si strumentalizzano fatti di cronaca - afferma la Pavlovic - con vere e proprie istigazioni all'odio razziale che hanno portato a situazioni violente come quelle che si sono verificate a Torino. Sin da subito abbiamo invocato il rispetto della carta di Roma, chiedendo che la vicenda di Milano non venisse cavalcata politicamente e mediaticamente, ma questo e' avvenuto nonostante i nostri inviti". Dopo essere stata trascinata suo malgrado sulle prime pagine dei giornali, la comunita' Rom di Milano adesso presenta il conto della disinformazione. "Di fronte alla provata falsita' di tutte le etichettature etniche dell'omicidio Savarino - ha dichiarato Dijana Pavlovic - valuteremo con l'Osservatorio sulla discriminazione la possibilita' di intraprendere opportune azioni legali a tutela della comunita' Rom di Milano".
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