Saluto Roberto, giornalista fino all'ultimo
Roberto Morrione (romano, classe 1941) arriva in Rai nel 1962, dove collabora con il "Rotocalco Televisivo" quindicinale diretto da Enzo Biagi, poi a "Servizi Speciali" e a "TV Sette" con Brando Giordani. A partire dal 1969 lavora nei Telegiornali della Rai, ricoprendo all'interno del Tg1 il ruolo di Capo Servizio Interni dal '76, Capo Redattore Cronaca dall'83, Vice Direttore dal '90.
Sotto la direzione di Morrione, nel settembre del 2000 Rai News 24 trasmette l'ultima intervista al magistrato Paolo Borsellino, rifiutata all'epoca da tutti i Tg nazionali (tra cui il Tg1 di Gad Lerner) e successivamente acquisita nel corso dei processi antimafia celebrati a Palermo contro Marcello Dell'Utri e a Caltanissetta contro i mandanti delle stragi di Capaci e via D'Amelio.
Alla fine del 2005, Rai News 24 e Morrione tornano alla ribalta per vari scoop sui retroscena dell'intervento militare statunitense in Iraq, tra cui una inchiesta di Sigfrido Ranucci in cui si documenta l'utilizzo di fosforo bianco sulla citta' di Falluja da parte dell'esercito USA. Ha fatto il giornalista fino all'ultimo, sfidando la sua malattia grazie all'impegno nel ruolo di coordinatore nazionale di "Libera Informazione - osservatorio sull'informazione per la legalità e contro le mafie".
Il mio ricordo di Roberto
Oggi pubblico con grande affetto e riconoscenza questo testo, scritto nel 2005 ma validissimo ancora oggi, uno dei tanti regali che mi ha fatto Roberto assieme alla sua grande testimonianza di vita, lasciata come eredita' spirituale a tutti coloro che praticano il difficile mestiere di scrivere e raccontare. La lezione che ho imparato da lui e' che non sono le strutture ad asservire gli uomini, ma sono gli uomini che possono decidere se mettersi al servizio del potere o della propria coscienza, anche all'interno di strutture importanti e strategiche come la Rai.
Qualcosa di diverso da tutto ciò che era avvenuto prima.
Il conflitto del Vietnam segnò il trionfo del reportage dal fronte, in una sia pure relativa libertà dell'informazione, con la stampa e le TV americane che ebbero un vero ruolo nell'alimentare quella coscienza critica di massa che indusse la super-potenza, già duramente provata sul campo di battaglia, alla sostanziale resa al tavolo della pace.
Un ruolo mediatico che, nella sua complessa anomalia, rimase solitario nella storia della seconda metà del "secolo breve" descritto da Eric Hobsbawm.
Scottati da quell'esperienza, nei successivi conflitti che li videro impegnati su scala mondiale nella strategia di espansione geo-politica e militare, dall'America Latina alla Somalia, dalla prima guerra del Golfo all'Afghanistan, alle laceranti guerre etniche dei Balcani, passando per le striscianti vicende del terrorismo internazionale, e il trauma dell'11 settembre, il controllo dei media fu crescente e pressoché totale.
Un controllo molto articolato in più fasi e direzioni, che ha in sé naturalmente le gigantesche divisioni della produzione e del consumo esistenti anche nei media fra chi ha e chi non ha, come i rapporti subordinati dei sistemi editoriali con vari poteri visibili e sommersi, come il conseguente condizionamento dei circuiti delle fonti e delle stesse strutture di selezione, produzione e trasmissione delle notizie. Quest'ultimo è il male interno, forse il più insidioso, che attraverso l'auto-censura corrode tanta parte dell'informazione.
Peter Arnett, dalla terrazza del suo albergo, potè con un telefono satellitare descrivere i bombardamenti di Bagdad nel '91, ma di fatto non ne fece vedere le conseguenze, né le analizzò. Se quel primo conflitto nel Golfo entrò nell'immaginario dei popoli solo attraverso le conferenze addomesticate del generale Schwarzkopf sulle bombe "finto-intelligenti" o la resa nel deserto delle truppe scelte di Saddam, (in realtà l'uno e l'altro evento nascondevano massacri di cui non si è mai conosciuta l'entità) il secondo conflitto ha rappresentato l'apoteosi dell'abbondanza multimediatica.
La rivoluzione digitale, dai satelliti al web, attraverso la miniaturizzazione e la mobilità degli apparati di ripresa, di editing, di trasmissione on line, hanno creato un vero bombardamento, come un gigantesco concerto di fondo in cui siamo permanentemente immersi, ma nei quali diventa però difficile, se non impossibile, distinguere le singole voci degli strumenti e le trame stesse degli spartiti musicali.
Ho altre volte descritto, perché semplice e abbastanza comprensibile, la metafora dell'affresco scomposto. Se un affresco è potenzialmente vastissimo e ricco ma scomposto nell'infinita quantità di frammenti da cui è costituito, ricostruire il disegno e la sua vera figura diventa condizione prioritaria, ma difficilissima.
E' ciò che accade oggi nella "televisione che va alla guerra", come l'ha ben definita in un suo libro l'inviato della Rai Ennio Remondino.
Nella ricchezza della ipercomunicazione, ovviamente, è possibile trovare tutto e il suo contrario, ma il punto nodale resterà in fondo identico: saranno solo i controllori dei grandi circuiti internazionali e dei media "di sistema" che dominano il mercato, per risorse e concentrazioni, a determinare le opinioni prevalenti? E finanche le interrelazioni, le idee-guida, le intuizioni e le emozioni delle comunità e delle persone, il filo del contesto critico che non lascia mai "orfane" le notizie, possono o no trovare sponde diverse?
Il moltiplicarsi delle emittenti attraverso la convergenza digitale, la straordinaria crescita numerica e qualitativa delle TV satellitari anche del mondo arabo - pensiamo al contrappeso svolto in Iraq e nell'universo islamico da Al Jazeera e dal Al Arabya - ma soprattutto la ingovernabile spinta partecipativa del web, che ha portato al proliferare per ora irregolare e molto stentato di un'emittenza diffusa sul e dal territorio, fanno pensare davvero a un continente di dimensioni ignote ancora largamente inesplorato, ma raggiungibile.
La stessa esperienza di Rai News 24, in questi faticosi e duri anni di impegno ha tuttavia dimostrato che è possibile tracciare una frontiera percorribile con tecnologie multimediali integrate con modelli, linguaggi, contenuti profondamente diversi da quelli dei TG analogici, lascia aperti, sia pure in una battaglia aspra e difficile per i noti motivi politici e legislativi, spazi innovativi e alternativi di spessore culturale di massa.
Le "scatole nere" delle redazioni - come le definisce Carlo Gubitosa in questa sua lucida e documentata incursione in una sorta di girone trasversale degli orrori più che degli errori editoriali, su ciò che avviene realmente nei vari campi e settori operativi dove si mescolano informazioni e propaganda - non sono inattaccabili, né irraggiungibili.
Il "mediattivismo" e il mondo del volontariato in cui Carlo ha realizzato la sua formazione e svolge il suo impegno, sono parte importante degli anticorpi esistenti e ancor più di quelli possibili e praticabili nella comunicazione. Insieme con le risorse morali e culturali, ancor prima che professionali, che pure esistono e resistono nel cuore delle redazioni e, potenzialmente, in ciascuno dei tanti che hanno scelto o ancor più si apprestano a scegliere il mestiere dell'informare.
Magari con vesti e in ruoli che le stesse incrostazioni corporative del giornalismo italiano, insieme con concreti interessi imprenditoriali di sfruttamento delle risorse umane del lavoro, e con l'insufficienza o peggio il disinteresse dello stesso movimento sindacale organizzato, non hanno ancora definito o accettato, né nei contratti né sul campo.
Certo senza rincorrere illusioni che questo puntuale e inquietante viaggio mediatico contribuisce a dissolvere, ma insieme con una più forte voglia di conoscere e di organizzarsi per sopravvivere e domani, spero, per vivere.
Roberto Morrione
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