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Questo sito e' un contenitore di materiale vario senza nessuna organizzazione logica. L'artigiano di questa fabbrica di parole e' Carlo Gubitosa: scrittore compulsivo, sedicente ingegnere, appassionato di cause perse e tecnofilo cronico.

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La mia terra la difendo

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Un ragazzo, una protesta, una scelta di vita

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La rabbia e la speranza di un ragazzo che amava la sua terra. La storia di Giuseppe, il ventenne di Campobello di Licata che ha affrontato "il pregiudicato Sgarbi" con una telecamera, due amici e un pacco di volantini.
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Guerra, razzismo, P2 e marchette: un atto d’accusa ai giornalisti VIP

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Se siete a caccia di pennivendoli famosi con le mani sporche di guerra, marchette, p2 e razzismo anziche' di inchiostro, questo e' il libro che fa per voi. Il consiglio e' disinteressato: io non ci guadagno niente sul venduto perche' mi pagano a forfait, lo dico per quelli che hanno problemi di schiena a tenere in mano un pesante tomo di Travaglio e vogliono qualcosa di piu' agile da leggere in bagno.
12 febbraio 2011 - Carlo Gubitosa

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Racconti di viaggio: coast-to-coast Tanzania-Zambia-Namibia

Diario africano

L'Unicef la definisce come "una delle nazioni piu' povere del mondo", ma in Zambia c'e' anche una societa' civile solida e multiforme, che sfida fame e AIDS anche assieme ai cooperanti italiani (sempre piu' scontenti del ministero degli esteri). Diario di viaggio da un paese che "non fa notizia".
4 agosto 2008 - Carlo Gubitosa

La stazione della Tazara Railwails a Dar-es-Salaam

Niente guerre, carestie, scontri tribali, genocidi, cataclismi o terremoti: l'unica notizia dello Zambia e' la poverta'. Puoi vivere in Africa per anni senza incontrarla, passando da una bolla di benessere all'altra, oppure puoi passare quattro giorni in un treno della Tazara Railways. Milleottocento chilometri di binari costruiti in soli sei anni dalla Repubblica Popolare Cinese all'inizio degli anni '70, un grande serpente d'acciaio che negli anni dell'apartheid e della guerra fredda ruppe l'isolamento economico e geografico imposto allo Zambia collegando le sue grandi miniere di rame al porto di Dar-Es-Salaam in Tanzania.

Il primo abbraccio dell'Africa e' il caldo. Un caldo che ti brucia l'anima, ti entra nelle ossa e ti svuota i polmoni sin dall'arrivo all'aeroporto di Dar-es-Salaam. Di giorno mi sento come se sulla fronte mi avessero appoggiato della carta vetrata con sopra un ferro da stiro acceso. Come hanno fatto i primi missionari a resistere a questo caldo per arrivare sin qui viaggiando via terra, attraversando il Sahara che appare immenso perfino dall'aereo? Ne concludo che la motivazione interiore e' l'energia piu' potente dell'universo. Prima di imbarcarmi sul treno della Tazara anche le piogge africane vogliono darmi il loro benvenuto, massicce secchiate d'acqua che durano pochissimo e sembrano buttate dal Balcone di Dio. Poi fa piu' caldo di prima.

Ad ogni fermata del treno, i bambini si avvicinano ai finestrini

Dai finestrini del treno l'"economia di mercato" della Savana ti viene incontro con sciami di bambini urlanti che chiedono ai passeggeri bottiglie vuote da rivendere, mentre altri sorridono e ballano divertiti dall'arrivo del treno. Molti di loro sono ragazzini minuscoli, piccolissimi, che in Italia forse girerebbero ancora nei passeggini mentre qui corrono come dei proiettili a piedi nudi. Il lusso della prima classe e' una signorina che ti porta un fazzolettino di carta con 6 caramelle alla menta da dividere con tutto lo scompartimento. Qui le ferrovie sono proprio ad altRa velocita', e ti permettono di gustarti il paesaggio con avvistamenti di aquile, gazzelle e impala.

Durante le ore passate in treno ho avuto modo di riflettere sulla differenza tra l'erba e l'idea dell'erba. L'erba vera a volte punge, taglia, graffia, puzza, sporca, irrita la pelle o infastidisce in mille altri modi. Chi si e' sdraiato sull'erba almeno per una volta lo sa: non e' quel tappeto soffice e profumato pieno di fiori che la pittura e la narrativa hanno partorito dal nulla. E penso alla differenza tra il viaggio e l'idea del viaggio. L'Orient-Express, la Transiberiana, la traversata con la Tazara Railways, insomma l'idea romantica di un avventura in treno con tutto l'apparato fantastico che la correda: da oggi tutto questo sara' inevitabilmente legato nella mia mente al fastidio delle coperte ruvide sotto il culo che non oso sollevare nel terrore di trovare i sedili ridotti chissa' come, ma anche alla colla appiccitaticcia che ho sul corpo come risultato della reazione chimica tra sudore e unguento antizanzare, o al calore immane che mi entra nelle ossa ad ogni sosta del treno o quando mi allontano dal finestrino anche di un solo centimetro, ai piu' vari generi di puzze fastidi e pruriti che la mente umana possa concepire, ma anche al primo cielo stellato che osservo dall'altra parte del mondo, dove il tuo istinto di boy-scout ti spinge a cercare la stella polare, ma dopo un secondo realizzi che e' impresa vana, perche' il nord ce l'hai sotto i piedi.

Il mio giovane compagno di viaggio sul treno della Tazara Railways

Nel treno la convivenza con gli altri passeggeri mi costringe a rivedere tutti i miei piani antimalaria. Ho deciso di non espormi alle pesantissime controindicazioni dei farmaci usati per la profilassi, che non ti garantiscono al 100% ma in compenso possono attaccare il tuo sistema nervoso. Le mie difese sono i pantaloni lunghi e le camicie a maniche lunghe, l'unguento repellente e gli spray al DEET comprati a Dar-Es-Salaam, con una concentrazione di principio attivo doppia rispetto ai piu' potenti Autan disponibili in Italia, una attenzione particolare al tramonto e all'alba, quando le zanzare diventano piu' ghiotte, una zanzariera sempre a portata di mano nello zaino, e alla sera finestre chiuse e luci spente il piu' possibile.

Ma in treno che fai? Mica puoi obbligare tutto lo scompartimento a spegnere le luci, e moriremmo tutti dal caldo chiudendo il finestrino. Montare la zanzariera mentre altri ti viaggiano accanto non e' forse un modo per dire "se di malaria ci muore qualcun altro, tipo voi per esempio, in fin dei conti non e' che me ne freghi piu' di tanto?" Alla fine l'unico possibile gesto di umanita' e' quello di condividere con i miei compagni di viaggio lo spray antizanzare.

Al mattino successivo ricevo una lezione di igiene: trovo il coraggio di sollevare le coperte che rivestono i sedili e li scopro in perfette condizioni. In Italia i treni dei pendolari lombardi sono davvero devastati, e rigurgitano gommapiuma marcia dalle aperture praticate nei rivestimenti di pelle, e quindi immaginavo anche per questo treno una situazione piu' o meno analoga. Non sara' la prima volta che durante questo viaggio mi domandero' quale sia davvero la "civilta' superiore". Uno dei miei compagni di viaggio la mattina si fa la doccia (si', sul treno c'e' anche la doccia, non molto accessoriata ma pur sempre doccia) e si profuma con una crema per il corpo che spalma su gambe e cosce. Io ho dormito con i vestiti che avevo addosso, tra i quali il record di permanenza del mio corpo e' quello dei jeans che mi accompagnano ormai da 5 giorni.

Quello che si vede all'orizzonte e' il treno dal quale e' stata scattata la foto

Le mie "giornate lavorative" sul treno sono molto semplici: stare 10 ore attaccato al finestrino con occhi avidi di paesaggi. Erano anni che non avevo piu' avuto l'occasione di contemplare quella poltiglia che si genera nella bottiglia di plastica quando un bambino mangia e beve al tempo stesso. Grazie Daniel, mio piccolo compagno di viaggio, mi hai fatto ricordare che di mostriciattoli pieni di vita come te un tempo ne portavo in giro a decine.

Guardare il mondo dal finestrino di un treno e' la piu' bella forma di meditazione che io abbia mai sperimentato. Durante il secondo giorno di viaggio la pioggia viene a benedire la terra che circonda Mbeya, e l'odore che sento mi riporta ai ricordi d'infanzia quando la mia famiglia trascorreva l'estate tra le montagne della Valtellina. L'odore della pioggia e' una di quelle esperienze universali come il sorriso, la fame, il sonno e il silenzio.

Nel ristorante del treno scopro lo Nshima, la polenta di mais che in Zambia e' il cibo base attorno al quale ruota tutta l'alimentazione. Chi mi insegna a fare le pallette di Nshima per poi inzupparle nel condimento e' Alfred, ingegnere meccanico di 50 anni con 4 figli che ha cominciato come guidatore di treni per diventare poi ingegnere della Tazara grazie al sostegno della compagnia ferroviaria. Un po' come se da noi le scuole pagassero l'universita' ai bidelli per poi assumerli come insegnanti.

Ho voluto offrirgli la cena spiegandogli che era giusto cosi', in quanto la valuta del mio paese e' forte anche grazie allo sfruttamento delle materie prime dell'Africa. "E' il mondo che va cosi' - mi ha risposto - qualcuno deve stare sopra e qualcuno sotto". Che sia questo sereno fatalismo ad averci salvati da un vendicativo contro-colonialismo ad opera dei paesi impoveriti? Comunque sia alla fine ho avuto ragione di insistere perche' abbiamo speso quattro euro in due.

Lusaka vista dall'alto di un palazzo

Durante il viaggio e nei giorni trascorsi a Lusaka e dintorni sono molte le foto che non scatto per prudenza, rispetto o pudore: bambini molto piccoli che sniffano colla, aiutano gli adulti nel mestiere di spaccapietre, giocano in mezzo al fango dei compound o corrono portando i fratellini piu' piccoli sulla schiena. Case di famiglie poverissime con un singolare equilibrio di forme, colori, panni stesi al cielo e persone stese in terra, fazzoletti microscopici di terra coltivati come sfida alla poverta' e alla fame, negozi, bar, internet cafe' e parrucchieri ricavati all'interno di baracche improponibili e cadenti, ma cio' nonostante popolati e vivi, pezzi di cielo dipinti dalle nuvole che nella stagione delle piogge rubano al sole colori magnifici, ingorghi cittadini dove i minibus lottano centimetro dopo centimetro per avanzare e rubare terreno ad altri veicoli, angoli di citta', scenari di campagna, i sorrisi dei suonatori ambulanti che hanno fatto festa allo "mzungu" straniero, e tante altre immagini catturate solo dagli occhi e dalla memoria.

Tra tutte queste foto mancate c'e' anche quella di due donne che vendono pomodori e banane su un banchetto ambulante nella zona commerciale di Lusaka, e il bimbo sorridente infagottato sulla schiena di una di loro. Speravo di conquistare la loro fiducia comprando una banana (piccola, massiccia, dolce e buonissima) ma la risposta e' stata ferma e cordiale: "preferiamo non essere fotografate". In questo paese avranno pochi soldi, ma in compenso hanno tanta dignita'.

Noi pensiamo che i "Vu'cumpra'" si siano inventati il mestiere di ambulanti per sbarcare il lunario in Italia, ma viaggiando in Africa mi sono reso conto che la vendita in strada e' una delle caratteristiche fondamentali della loro economia, un vero e proprio servizio pubblico che ti porta il mercato davanti al finestrino dell'auto anziche' costringerti a portare l'auto al supermercato.

Camminando per Lusaka ho incontrato venditori ambulanti dei prodotti piu' improbabili, che ho annotato sul mio taccuino: abbecedari, anatre, asciugamani, binocoli a infrarossi, cacciaviti, cappelli, cartellette di plastica, cavi da batteria per auto, cesoie, cestini di paglia, chiavi inglesi, cinture, completi da uomo, copertoni di bicicletta, corde, cornici, gessetti, kit per pulizia cd, lucchetti, mollette, orologi da muro, pettini, pomate per dolori articolari, pomodori, pompe per biciclette, portafogli, profumi, quadri, racchette da badmington, ricariche per cellulari, set da cucito, statue, stivaletti di gomma, tagliaunghie, tappetini per auto, torce elettriche, volanti per auto, zappe e mille altri articoli strani e improbabili, che ti fermano ai semafori nella speranza che tu abbia bisogno proprio di quel prodotto, che il caso ha trasformato nel "core business" delle loro aziende individuali.

Credeteci o no, ma questo e' proprio l'ingresso di un internet point

Il concetto di "servizio pubblico" qui e' molto diverso dall'Italia. Ad esempio, se una macchina si blocca per strada, appare immediatamente uno stormo di ragazzini pronti a spingerla nella speranza di rimediare qualche soldino. Se sei a piedi, c'e' sempre qualcuno che ti propone un giro su un taxi abusivo per sbarcare il lunario, se parcheggi c'e' sempre qualcuno che ti fa la guardia alla macchina e ti aiuta a entrare e uscire dal parcheggio in cambio di una mancia, se hai bisogno di leggere il giornale c'e' sempre qualcuno al semaforo che te lo vende, se vuoi riparare un orologio o lustrare le scarpe, nelle vie di Lusaka puoi farlo ad ogni angolo di strada.

Il 29 gennaio scopro di trovarmi al centro di un emergenza planetaria: mentre sono a Lusaka viene annunciato il rapporto Unicef 2007 sull'intervento umanitario, dove si afferma che "i bambini dello Zambia vivono in una delle nazioni più povere del mondo" a causa dell'insicurezza alimentare e degli alti tassi di HIV/AIDS, e che c'e' bisogno di 635 milioni di dollari da destinare a questa e altre 32 situazioni di emergenza in tutto il mondo.

Si potrebbe pensare che la vita e la morte dello Zambia siano legate agli aiuti umanitari dall'estero, e che di fronte a tutto questo la popolazione locale possa fare ben poco. Ma una volta sceso dai vagoni della Tazara ho scoperto una societa' civile attenta e matura, capace di rimboccarsi le maniche senza essere mai caduta nelle trappole della guerra e del tribalismo, utili solo a riempire le tasche dei warlords e dei paesi "civilizzati" che esportano armi in Africa. Tutto questo in una terra ricchissima di ricchezze minerarie e naturali, dove pero' i profitti delle miniere di rame vanno alle compagnie straniere che ne controllano le concessioni, lasciando cadere in Zambia solo le briciole della torta.

"Rinascere in un ambiente che non e' il tuo, se ce la fai, e' una delle piu' belle esperienze che si possano vivere. Io ora sento di appartenere all'Africa, ci vivo da 20 anni e in Europa mi sentirei fuori posto". Questo e' padre Dario Chaves, portoghese, che ama la sua gente africana anche dopo l'aggressione di una gang che gli ha rotto un pezzo di scatola cranica mentre cercavano di rubare in parrocchia. Dario vive a Lilanda, uno dei quartieri piu' poveri di Lusaka, dove l'asfalto e' un'utopia e le piogge trasformano le strade in torrenti di fango dove nemmeno le 4x4 osano avventurarsi.

Padre Dario Chavez e i ragazzi di Lilanda

Le celebrazioni nella parrocchia di Lilanda non durano mai meno di due ore, e tutto quello che hai sentito sulle liturgie africane non basta a prepararti allo spettacolo che stai per vivere. Ma non c'e' solo la preghiera: Dario e' riuscito a coinvolgere la popolazione locale nella costruzione di un centro giovanile e una scuola comunitaria, acquistando anche degli appezzamenti di terreno che ora vengono coltivati dalle famiglie piu' povere. E' proprio questo quello che manca leggendo i ripetuti allarmi sulla poverta': la percezione di tutte le iniziative dal basso che fanno rialzare la testa alle comunita' locali.

La domenica in parrocchia ci sono almeno mille persone per ognuna delle due messe, che durano due ore ciascuna grazie ai canti che arricchiscono la liturgia. All'offertorio si balla e anch'io e approfitto: tanto non mi conosce nessuno, e non so se mi capitera' mai un'altra occasione cosi' per divertirmi in chiesa. Alla fine padre Dario mi chiama a sorpresa sull'altare per presentarmi all'assemblea, che mi riceve con calore e apprezza le due parole in inglese che riesco a mettere insieme sul momento per ringraziarli. All'uscita della messa una frotta di bambini e anziani vuole stringermi la mano. "Si ricordi di pregare per noi al suo rientro", mi dice un anziano. Dei bambini mi chiedono di comprargli dei popcorn, ma io riesco a fargli cambiare programma e li porto nel cortile della parrocchia dove giochiamo per piu' di un'ora con mezzi improvvisati, mentre penso che questo tipo di "nutrimento" dell'anima per un bambino e' ancora piu' importante dei popcorn.

Esplorando Lusaka incontro anche la comunita' di Koinonia, una delle tante strutture per bambini e adolescenti fondata dal padre comboniano Renato "Kizito" Sesana in Zambia e Kenya. Li' conosco George e gli altri educatori, ma soprattutto incontro dei ragazzi con un sogno, che vogliono diventare dottori, scienziati, contadini, e mi rendo conto che la poverta' non ti svuota solo la pancia dal cibo ma anche il cuore dai sogni, e per ritornare a sognare non e' sufficiente mangiare tre volte al giorno.

I ragazzi di Koinonia Zambia ballano con la loro energia

La sera i ragazzi di Koinonia mi sorprendono realizzando in mio onore delle danze bellissime con i loro costumi tradizionali. Rimango ipnotizzato, affascinato e stupefatto dall'energia che proviene da queste danze e dal ritmo di questi ragazzi giovanissimi e allegri che mi hanno accolto con calore senza chiedermi nulla. Guardandoli pensavo "questo e' un dono di Dio, e' la vita che mi fa festa perche' ho deciso di andarle incontro". Solo in un secondo tempo scopro che i ragazzi di Koinonia hanno portato queste danze anche in Scozia, partecipando al Festival teatrale di Edimburgo con uno spettacolo di danze culturali e recite sulla vita di strada e l'aids.

"Empowerment", cioe' restituire alle persone il potere di controllare la propria vita: e' questa la parola piu' ricorre nei miei incontri con le comunita' locali che realizzano progetti di sviluppo nei dintorni di Lusaka. E proprio di questo mi parlano Enrico e Chiara, una coppia di cooperanti milanesi che vive e lavora a Siavonga in un progetto di microcredito del Celim (una Ong Milanese) ispirato alle iniziative della Grameen Bank.

"Ci sono problemi con alcuni pagamenti, ma gli utenti colpiti da HIV sono tra i piu' solvibili", mi raccontano Enrico e Chiara, Entrambi laureati in economia alla Cattolica, lui con una tesi sul microcredito in Bolivia, lei con un lavoro sugli effetti del neoliberismo in Vietnam. Mi spiegano che la concessione del credito e' solo una tappa di un percorso che comprende il contatto con le donne che fanno richiesta di un prestito, la formazione sui temi dell microcredito e dell'economia, i corsi di alfabetizzazione.

Chiedo a Denis, un operatore locale di 45 anni che lavora col Celim dal '98, se ha delle buone notizie da darmi su quello che succede a Siavonga, e lui mi racconta di un gruppo di donne che avevano problemi con l'allevamento del bestiame, e dopo una serie di incontri che hanno coinvolto la comunita' locale hanno deciso di richiedere l'intervento del governo con un atto formale. Il risultato e' stata la creazione di un punto di abbeverata che ha evitato di dover percorrere ogni volta il tragitto fino alle rive dello Zambesi. "Il risultato piu' grande - spiega Denis - non e' l'abbeveratoio, ma l'esperienza che ha rafforzato il senso della comunita', il senso dei propri diritti, il senso della cittadinanza. La gente non credeva possibile che il governo si muovesse soltanto per loro, ma dopo questa vicenda ha cambiato idea".

Il mercatino nei dintorni di Siavonga sostenuto dal microcredito del Celim

Assieme agli operatori del Celim di Siavonga visito un piccolo villaggio dei dintorni, dove incontriamo Doroty, che lavora grazie al microcredito e vende piccoli pesciolini secchi (Kapenta). Al mercato c'e' Emeria, che rimane sbigottita quando scopre che ho 35 anni e non sono ancora sposato, e vende tra le altre cose anche pezzi di terra che sembrano sassi ma in realta' sono friabili e - a quanto mi dicono - commestibili. Quando vedo altri che li mangiano, la curiosita' e' troppo forte, e anch'io mi getto in bocca quello che fino a un minuto prima avrei considerato un sassolino e non un integratore di minerali. La sensazione e' simile a quella che si prova al mare quando ti entra della sabbia in bocca, il gusto e' indefinito e indefinibile, ma resta la consolazione di pensare che il raschiamento dei granellini di minerale sui denti ti aiuta a tenerli puliti se non si rompono nel frattempo.

Osservo una donna che spazza con rami secchi lo spiazzo davanti ad una casa, e mi tornano in mente tutte le occasioni in cui nei giorni precedenti ho visto persone spazzare zolle di terra senza cemento, pulire dal fango e dalla polvere canaletti e marciapiedi, lottare contro il disordine e la sporcizia per fare la differenza tra un pezzo di terra e un pezzo di terra pulito.

La sede centrale del Celim in Zambia e' a Lusaka, dove avevo gia' incontrato Gianclaudio, che mi parla con ottimismo dei progetti di sviluppo in Zambia e mi descrive con tono piu' sconsolato la situazione dell'Italia: il ministero degli Affari Esteri e' il collo di bottiglia che rallenta e penalizza il lavoro di tantissime ONG e agenzie di cooperazione. Gianclaudio mi racconta che il problema dell'Aids non e' solo clinico, ma anche e soprattutto culturale: un forte stigma sociale condiziona la vita delle persone affette da HIV tanto quanto la malattia. "Per questo - spiega - e' importante coinvolgere i leader delle comunita' locale e i guaritori tradizionali dei villaggi in un meccanismo virtuoso, per spingere le persone a fare il test HIV senza dover combattere contro le loro tradizioni".

Rientrando a Lusaka, provo ad esplorare il mercato cittadino, dove sono l'unico bianco in mezzo a centinaia di persone. Se il clima fosse piu' ostile, potrei sentirmi come un calabrese ad un congresso della Lega, ma per fortuna gli zambiani sono molto piu' pacifici e accoglienti di Bossi e Calderoli, e mi lasciano un ricordo bellissimo dello Zambia e della sua gente.

Dopo aver esplorato Lusaka e dintorni il mio viaggio/avventura prevede una traversata in autobus che mi portera' in Namibia attraversando Livingstone e le magnifiche cascate Vittoria. Nelle ore che precedono la partenza incontro un uomo vicino alla stazione degli autobus, che ha accumulato ai piedi di un albero le sue poche cose, e si difende dal resto del mondo con un cerchio di sterpaglie, ammonticchiate attorno a lui come una barriera, precaria quanto l'esistenza che difende. Cosa scrive sul suo quaderno quest'uomo? Vorrei avere il coraggio di avvicinarlo e di parlargli attraversando il suo recinto di rami, ma mi limito ad osservarlo per qualche minuto, pensando a quanto e' grande la dignita' dei poveri.

Gli impala nel parco nazionale di Livingstone

Raggiungo Livingstone dopo molte ore di autobus, con gli occhi assetati e curiosi per le meraviglie che mi appresto ad osservare nelle mie ultime giornate di permanenza in Africa. Le cascate Vittoria sono davvero una delle meraviglie del mondo. "Quando vai alle cascate, non portare nulla da mangiare!" L'avvertimento del mio amico Emilio, che mi ha affettuosamente ospitato a Lusaka, e' riemerso troppo tardi dalla scatola dei ricordi, e mi sono ritrovato sul sentiero che conduce alle cascate Vittoria assaltato da una "street gang" di babbuini che non aveva come bersaglio il mio zainetto (vuoto) ma la merenda dei due ragazzi che stavano camminando con me sullo stesso sentiero. Va bene per il cibo, ma le scimmie volevano portarsi via anche il loro zainetto, ed e' cosi' che con un po' di paura e adrenalina (i morsi o i graffi delle scimmie possono portare malattie serie) ho provato a recuperare il maltolto, scoprendo che con la barba lunga, sbuffando e facendo versi strani riesco ad impaurire perfino dei babbuini affamati.

In compenso Mckenzie e Lynn, incontrati per caso nel cammino che porta alle cascate Vittoria, mi hanno aiutato in altre occasioni, ad esempio quando ho avuto un calo di pressione e ho cominciato a vedere tutto nero, e loro mi hanno fatto stendere e mangiare quel tanto che bastava per recuperare le forze, quando mi domandavo con troppa insistenza che cosa ci fosse dietro i cartelli "non proseguire" che bloccavano uno dei sentieri panoramici davanti alle cascate, oppure quando guardavo con troppa intensita' il filo spinato che impedisce di arrivare al ponte sullo zambesi che si trova al di la' della frontiera con lo Zimbabwe, e loro mi hanno fatto desistere prima di mettermi nei guai con la mia mezza idea di scavalcare per andare a godermi il panorama.

Lo spettacolo mozzafiato delle cascate Vittoria

Dopo aver assistito allo spettacolo travolgente, maestoso, possente e titanico delle cascate Vittoria, ho improvvisato istintivamente una danza della pioggia a torso nudo in armonia con il creato, quando alla fine della giornata il cielo ci ha ricordato che in fin dei conti eravamo pur sempre nella stagione delle piogge. Nel pomeriggio siamo andati in giro in barca sul fiume, osservando lo splendore dello zambesi al tramonto, dove gli elefanti brucavano placidamente i rami degli alberi immersi nell'acqua.

Prima di essere avvisato che gli ippopotami sono tra le creature piu' feroci del regno animale, ho pensato guardandoli che mi sarebbe piaciuto vivere con la stessa paciosita' flemmatica, rilassata serena e bonacciona che caratterizza questi animali quando non sono arrabbiati e se ne stanno tranquillamente spaparanzati nel fiume. La stessa sensazione di serafica nonviolenza l'ho provata nel safari a piedi del giorno seguente, quando ho visto da vicino i rinoceronti mentre "davano i bacini all'erba" per il loro pasto serale. Quando mi prendono in giro per le mie abitudini vegetariane, e mi dicono che per stare in piedi e' indispensabile la carne, io mi diverto sempre a rispondere "prova a dirlo ai rinoceronti che devono smettere di essere vegetariani senno' svengono!"

Lo spettacolo del tramonto sulle rive dello Zambesi

Guardando la magnificenza del parco nazionale di Livingstone ho pensato che in Italia ci riempiamo la bocca ogni cinque minuti di bei discorsi sulla promozione del turismo e sulla valorizzazione del patrimonio artistico nazionale, mentre quando si parla dell'Africa nessuno si ricorda che qui ci sono dei luoghi tra i piu' belli del mondo, e si parla solo di aiuti umanitari, carestie, guerre e malattie.

Dopo il soggiorno a Livingstone e' tempo di mettersi in marcia verso la Namibia, per non mancare all'appuntamento con il volo di rientro che partira' da Windhoek. Ma prima voglio fare tappa a Swakopmund, citta' della Namibia che affaccia sull'Atlantico, per chiudere il "coast-to-coast" iniziato sull'Oceano Indiano a Dar-Es-Salaam.

Ma un giorno intero di viaggio non e' sufficiente per coprire i 1642 chilometri della tratta Livingstone - Swakopmund. In Africa gli autobus non hanno orari, ma tutti sanno quando partono: quando sono pieni. Anche con una levataccia all'alba per prendere il primo autobus, bisogna comunque fermarsi al confine, attraversare al piedi il ponte che separa Sesheke (Zambia) da Katima Mulilo (Namibia), e da li' raggiungere la piu' vicina fermata degli autobus, aspettando pazientemente che anche l'ultimo sedile sia occupato da un passeggero pagante e ringraziando le forze celesti per aver conquistato una posizione meno scomoda delle altre all'interno della scatola di sardine a quattro ruote.

In un giorno solo 1642 chilometri in Africa sono davvero troppi, ed e' cosi' che dopo 18 ore di viaggio scendo dall'ultimo autobus utile ritrovandomi a mezzanotte in una stazione di servizio di Okahandja, un angolo sperduto di Namibia a 280 chilometri da Swakopmund, la terra promessa dove potro' finalmente toccare l'oceano Atlantico.

E qui avviene il miracolo: davanti al mio aspetto distrutto, sconcertato e impaurito dal sopraggiungere della notte, tutti i dipendenti della stazione di servizio si prendono cura di me e mi aprono ad uno straniero rimasto solo di notte in mezzo alla Namibia la porta di uno stanzino di servizio che per me e' stato come una suite imperiale, dove riesco a far prendere un po' di aria anche allo zaino che si era un po' inumidito nel carrello di rimorchio del minibus che mi aveva portato fin li.

Addormentandomi sullo stuoino di gommapiuma offerto da Anna-Liisa, Joram, Pridester, Ndume e Domingos, penso che fino a quando qualcuno non mi dimostrera' che c'e' almeno un autogrill italiano disposto ad accogliere per una notte un nero, per quanto mi riguarda la vera civilta' superiore restera' quella africana.

Alle sette di mattina del giorno dopo, Internet mi viene in aiuto: prima di partire da Lusaka, infatti, avevo prenotato online assieme ad Emilio un biglietto per l'autobus Okahandja-Swakopmund, "giusto per sicurezza" nel caso non ce l'avessi fatta a terminare il percorso. Guardare il mio nome stampato sul tabulato della compagnia di trasporti mi ha dato una bella sensazione: finalmente il mio viaggio e' uscito dalla precarieta'.

Spesso siamo come formichine aggrappate alle loro molliche di pane, che per noi sono il lavoro, la casa, la famiglia, le abitudini, gli oggetti materiali) e non ci rendiamo conto di quanto e' grande il mondo attorno a noi. Per sopravvivere, le formiche ogni tanto abbandonano le loro certezze e si avventurano nell'immensita del bosco esplorandolo a caccia di cibo. Per noi invece e' piu' difficile, e spesso restiamo rintanati nei nostri formicai. Mentre penso tutto questo, dal finestrino dell'autobus osservo il verde lussureggiante di Okahandja che si trasforma rapidamente nel deserto namibiano, e questo spettacolo mi toglie il fiato.

Il deprimente deserto cittadino di Swakopmund

Arrivato a Swakopmund mi ritrovo nel posto piu' noioso che abbia mai visto in 35 anni di vita. Al mattino sembrava una citta' come le altre, ma al pomeriggio una misteriosa epidemia ha svuotato le strade, e non riuscivo a capire dove fossero finite tutte le persone. Durante una lunga passeggiata sul lungomare incontro si' e no 10 persone in un'ora di cammino. E' stato uno shock culturale: tu immagini che in tutto il mondo il sabato pomeriggio sia l'ora delle passeggiate, dello shopping, delle vasche sul corso principale, mentre qui sono tutti rintanati in casa o in giro per il weekend.

In preda alla depressione salgo su un taxi e vado a vedere un po' di dune ai margini della citta'. Questo e' un posto profondamente colonizzato, a partire dal nome della citta' e delle vie. Le strade sono piene di bianchi, le case perfettine che ricordano la Svizzera lottano con il vento e la sabbia che le prendono a schiaffi in faccia. Quando un povero (ovviamente nero) ti si avvicina e gli dai qualche moneta, due metri piu' in la' incontri una vecchietta bianca che ti parla ammiccando in tedesco. L'impressione e' che avesse qualcosa da ridire sul povero mezzo ubriaco che mi aveva avvicinato, la certezza e' che nella testa di queste persone se sei bianco e sei a Swakopmund DEVI per forza parlare tedesco perche' "sei dei nostri". La liquido improvvisando un "Auf Wiedersen" come meglio riesco, ma temo che il mio accento italiano mi abbia tradito facendomi automaticamente passare dalla parte degli "altri".

Se non hai la macchina, qui non puoi fare un tubo. Il sabato tutti i negozi sono chiusi e la desolazione trasuda dai muri. Mi sono divertito molto di piu' nei compound di Lusaka che in questa citta' che ha tutto, tranne la vita per le strade. Mi sono sentito piu' sicuro di notte al buio ad Okahandja assieme ad altre persone che nelle inquietanti strade deserte di Swakopmund al sabato pomeriggio in pieno giorno. Ho fatto amicizia piu' facilmente sui sentieri scoscesi che portano alle cascate Vittoria che nei viali spettrali di questa citta' fantasma. Ribadisco: Swakopmund e' il posto piu' squallido, deprimente e scialbo che abba mai visto in vita mia.

Se la citta' deserta mi ha respinto, il giorno dopo il deserto (quello vero) mi accoglie a braccia aperte. Trovo su un volantino il numero di una guida turistica, e ci avventuriamo tra le dune. "My sandbox is the desert", mi racconta Georg, che ha il passaporto tedesco ma vive qui da tutta la vita, e ancora oggi gioca tra le dune proprio come un bimbo gioca nel recinto della sabbia. Conosce questa zona come le sue tasche, ma soprattutto la ama intensamente. Mi racconta della corsa all'Uranio che si svolge in Namibia, con 20 compagnie minerarie che cercano di ottenere dal governo per pochi spiccioli le concessioni per lo sfruttamento delle miniere di Uranio, proprio come in Zambia e' stato fatto con le miniere di rame, che arricchiscono compagnie straniere e non portano nessun beneficio alla popolazione locale.

Le piante del deserto creano scenari da film di fantascienza

Georg non e' un anticapitalista: e' solo innamorato del deserto, e vede nell'estrazione dell'uranio e del granito rosso una grave minaccia per questo ecosistema delicatissimo. Mi fa vedere una foto vecchia di 50 anni: tre uomini in macchina in mezzo ad una pianura brulla puntellata da cespuglietti. Ci ha messo anni, ma e' riuscito a ritrovare il posto esatto in cui quella foto e' stata scattata. E gli stessi cespugli di quella foto, che sono ancora li' dopo mezzo secolo, si rivelano per quello che sono in realta': alberi centenari che hanno resistito nel deserto senza una goccia di pioggia a volte anche per 15 anni di fila. "Naturally trimmed bonsai", li definisce Georg, e da quel momento inizio anch'io a considerare ogni cespuglio del deserto come un "bonsai regolato dalla natura", e quei ciuffi di verde acquistano ai mie
occhi la dignita' che meritano.

"Ci sono turisti e viaggiatori", mi racconta Georg, e io mi sento orgoglioso per essere stato incluso nella seconda categoria. Il deserto namibiano e' uno scenario emozionante e commovente al tempo stesso. La forza e la fragilita' delle forme di vita che resistono da secoli sfidando il caldo e la siccita' e' una delle prove piu' lampanti dell'esistenza di una potentissima sorgente di energia vitale che fa fiorire anche le rocce.

Il deserto attorno a Swakopmund e' un giardino, se impari a leggerlo con gli occhi di chi lo conosce da una vita. Sono stato molto fortunato ad aver incontrato Georg alla fine del mio viaggio. Gli spazi aperti del deserto mi hanno fatto provare emozioni che nessuna foto e nessun racconto potranno esprimere pienamente.

Lo squallore di questa citta' mi ha fatto provare il deserto delle emozioni, ma il deserto ha fatto fiorire in me la gioia e lo stupore di trovarmi davanti allo spettacolo magnifico della natura.

Il deserto della Namibia, uno spettacolo mozzafiato che ancora adesso mi porto nell'anima

La strada che mi porta in minibus verso Windhoek, dove partira' l'aereo che mi riportera' a Roma via Dusseldorf, e' piena di pensieri che sono gia' proiettati in Italia. Penso al Napisan da comprare per bonificare i miei vestiti, e a come fare per sviluppare e stampare i rullini di fotografie accumulati in un mese di viaggio durante il quale ho abbandonato temporaneamente la fotografia digitale.

La mia avventura si conclude con 12 ore di aereo, una notte trascorsa all'aeroporto di Dusseldorf con l'omino dell'aspirapolvere che passa alle quattro del mattino, lo sciovinismo linguistico dei tedeschi che fanno finta di non capire l'inglese e finalmente il dolce abbraccio della mia compagna che mette a questa avventura la parola

FINE

Note: La cronaca fotografica del viaggio e' qui:

http://www.giornalismi.info/gubi/indici/ind_241.html
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