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Panorama

Nati per rubare

L'inchiesta del mensile (numero del 10 luglio) propone un tema popolarissimo in questi tempi di caccia ai rom e di costruzione di un capro espiatorio collettivo: i bambini rom che rubano. Il titolo è quello della copertina. Ecco il sommario: LADRI BAMBINI. Appena vengono al mondo li addestrano ai furti, agli scippi, all'accattonaggio. E se non ubbidiscono sono botte e violenze. Ecco la vita di strada (e le voci) dei piccoli rom che il ministro Maroni vuole censire, anche con le impronte digitali
12 luglio 2008

 Vita da baby ladro

GIACOMO AMADORI FOTOGRAFIE DI GIANLUCA PANELLA

CRONACA IN DIRETTA Obbligato a rubare, abituato a eludere schedature con decine di identità inventate, scaltro con i poliziotti. E vittima dei genitori. Storia di Zafil, romeno, di 10 anni. E di altri bambini schiavi.

Forse è colpa dell’immobile meriggio estivo. Ma a mezzogiorno di lunedì 30 giugno, quando i poliziotti gli hanno preso le impronte digitali, nessuno ha protestato. Né lui si è stupito. Gli agenti della Polfer lo hanno pizzicato mentre insieme con un amico «curava» lo zaino di una turista giapponese dentro la «tonnara». Così gli investigatori hanno ribattezzato lo stretto passaggio che collega l’uscita della stazione Centrale di Milano con gli autobus per gli aeroporti, dove i piccoli rom vanno a caccia di stranieri da derubare. Dei genitori non c’era nemmeno l’ombra, anche se Vali, romeno di Craiova, ha solo 12 anni, o forse 13, perché neppure lui probabilmente conosce la data del suo compleanno.

Copertina n. 28 di Panorama, 10 luglio 2008

Il ragazzo, viso appuntito e capelli scalati sui lati, ha aspettato in silenzio che in questura facessero la comparazione, poi il terminale ha sputato fuori i precedenti: negli ultimi 5 anni è stato sottoposto a 34 segnalazioni fotodattiloscopiche (scatto del viso e impronte), la prima quando aveva 8 anni, e ha dichiarato altrettanti alias, nomi e date di nascita sempre diversi.

Il curriculum è quello di un ladro esperto che colpisce tra Milano e Venezia, ma non disdegna puntate fuori dalla sua riserva di caccia, per esempio a Ventimiglia. Nell’agosto 2006 è stato denunciato dai carabinieri per «sequestro di persona a scopo sessuale». All’epoca aveva 10 o 11 anni. Infatti le radiografie delle ossa che gli hanno fatto in passato hanno stabilito che Vali, o Valli oppure Florin, è nato nel 1995. Adesso, grazie alle impronte non finisce più sotto i raggi x, gli basta appoggiare i polpastrelli sull’inchiostro per farsi riconoscere ed essere lasciato libero, visto che non è imputabile per la legge italiana, avendo meno di 14 anni.

L’amico Curte, mèches bionde, occhi chiari, poiché ha 15 anni può essere denunciato. Pure lui ha già moltissimi alias, 26 per l’esattezza. Ha collezionato precedenti per rapina, furto, ricettazione, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. La prima fotosegnalazione l’ha subita a 12 anni.

Vali e Curte, però, non sono uno spot vivente preparato dal ministro dell’Interno Roberto Maroni, che nei giorni scorsi ha annunciato di voler prendere le impronte digitali ai piccoli rom, suscitando l’indignazione di chi bolla la proposta come razzista, un retaggio dell’epoca fascista. In realtà Vali e Curte sono due tra le decine di ragazzini nomadi, spesso under 14, che ogni giorno vengono fotosegnalati in caserme, commissariati e questure d’Italia, su richiesta dei pm.

Una prassi consentita dalle leggi e che numerose circolari delle procure presso i tribunali per i minorenni hanno nel tempo ratificato. Il motivo? Permettere l’identificazione dei bambini che vengono sorpresi a commettere reati o abbandonati in strada a chiedere l’elemosina.

Il compito delle forze dell’ordine è dare un nome o un’età a quei baby rom, per riuscire a individuarne i genitori e magari proteggerli da famiglie che li schiavizzano e a volte li vendono. A questo è servito fino a oggi il controllo delle impronte anche per i minorenni che non hanno commesso reati. E ha permesso di monitorare un mondo dove i giovani nomadi hanno una sola scuola, la strada, e lo Stato ancora troppo poca forza per salvarli.

Nell’elenco dei 257 bambini di origine straniera scomparsi ancora da ricercare, stilato dalla Polizia di Stato, la maggior parte sono piccoli rom affidati ai centri di accoglienza e addestrati a fuggire il giorno stesso in cui vi entrano. «I più grandi scappano dagli istituti autonomamente, gli altri, quelli che chiedono l’elemosina, vengono spesso recuperati di nascosto dai parenti» dice Chiara Giacomantonio della sezione minorenni del Servizio centrale operativo della Polizia di Stato. «Questi bambini valgono oro e, dopo le prime segnalazioni, spesso vengono scambiati tra famiglie che li mandano a rubare o a chiedere soldi in zone dove non sono conosciuti».

Fenomeni che l’opinione pubblica spesso ignora e con cui invece si misurano quotidianamente le forze dell’ordine. Per esempio gli uomini della Polfer di Milano, coordinati dalla dirigente Stefania Chirosi De Bellis. Loro formano il presidio dello Stato in stazione Centrale, territorio di frontiera cittadino. Qui, negli uffici della polizia giudiziaria, guidata da Angelo Laurino, nel 2007 sono passati 280 arrestati e 2 mila denunciati.

Oltre ai minorenni che sguazzano nella tonnara. Qui procedono intruppati tutti i giorni migliaia di stranieri, le vittime preferite dei ladri bambini. In particolare i giapponesi e i russi, che secondo le statistiche di questi criminali in erba sono i turisti che viaggiano con più contanti in tasca. E così il giorno dopo il fermo dei due giovani romeni anche Panorama si è immerso nella tonnara.

Alle 3 del pomeriggio dell’1 luglio il viavai dei viaggiatori è fiacco e di zingarelli in giro ce ne sono pochi. «Il mese scorso bazzicava da queste parti una banda di 15-20 rom, adesso si sono spostati» informa un agente. Forse perché nel piazzale della stazione sono schierati una quindicina di uomini del reparto mobile. «I piccoli nomadi ormai ci riconoscono anche in borghese e studiano i nostri turni di lavoro» avverte un poliziotto con maglietta e faccia sfatte dal caldo. Ma dopo mezz’ora nella tonnara accade l’inevitabile.

Due bionde norvegesi vengono puntate da un ragazzino magrissimo e con il marsupio nero a tracolla. Le aggancia sotto gli occhi del cronista. Ad assistere allo spettacolo ci sono pure due marescialli in borghese del gruppo del pronto impiego della Guardia di finanza che si trovano nel piazzale della stazione per un altro servizio. Il miniborseggiatore non li conosce e non si insospettisce. L’azione è fulminea. Un militare ferma il ladruncolo con le mani nella borsa di una delle due turiste. Poi, lo conduce nella sala fermati del settore operativo della Polfer.

L’interrogatorio fotografa il copione che questi giovanissimi rom sfruttati mandano a memoria. Il bambino biascica un nome incomprensibile, che assomiglia a Zafil Bobo. «Sono romeno, ho 10 anni, non ho fratelli, sono in Italia da 1 anno» balbetta. Nega di conoscere la sua data di nascita. Non ha con sé il cellulare né riferisce il numero dei genitori. «Tutti accorgimenti che servono a renderli invisibili» notano i poliziotti.

Zafil è spaventato, piange in silenzio, stringendo un fazzoletto, ma resiste e non permette ai militari della Guardia di finanza di risalire ai parenti. A chi gli contesta di coprire degli adulti che lo costringono a mettersi nei guai risponde abbassando lo sguardo.

Sei stato fermato in passato? «La polizia mi ha preso le impronte tre volte» risponde con gli occhi spalancati. Alla Polfer confermano di averlo già visto. Cosa stavi facendo? «Volevo prendere i soldi per comprare i biglietti dell’autobus» dice senza crederci.

Con il cronista confessa di aver rubato in passato. E i soldi dove sono finiti? Risposta di routine per prendersi tutte le colpe: «Mi compro i vestiti, ai miei genitori non do niente». Il padre, è la versione ufficiale, fa il lavavetri, la madre chiede l’elemosina. I presenti questa filastrocca l’hanno sentita decine di volte. Da grande che lavoro vuoi fare? Spallucce. Vai a scuola? «Non mi piace. Non so leggere né scrivere». Sussurra che vuole tornare a casa a giocare con la bici e la Playstation. Alza gli occhi: «Posso andare via? Prometto che non lo faccio più. Se i miei genitori non mi vedono per molto tempo, mi picchiano perché in giro ci sono i marocchini che uccidono i bambini». I finanzieri lo portano in caserma per il fotosegnalamento disposto dal pm e per cercare i parenti.

Nel campo nomadi indicato dal piccolo Zafil come domicilio, nessuno reclama lo scomparso di turno. Come sempre. A mezzanotte i marescialli, stremati, non gli hanno ancora trovato un posto in un centro di accoglienza. «Tutto pieno» rispondono dagli istituti. I genitori si guardano bene dall’andare a chiedere la restituzione del figlio. Ma anche se la notte è lunga Zafil non si scoraggia, conosce le leggi e sa che tra poche ore potrà tornare sulla sua bicicletta.

 

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